Nuove evidenze hanno determinato la necessita' di aggiornare quanto previsto per
la terapia anti-ischemica nelle linee guida ESC pubblicate nel 2013-5. In
particolare si e' valutata l'opportunita' di rivedere le indicazioni relative
all'uso dei betabloccanti, al ruolo di calcio-antagonisti e nitroderivati e
all'uso di ranolazina ed ivabradina.
In considerazione dei dati pubblicati su alcuni registri come il REACH (Reduction
of Atherothrombosis for Continued Health), in cui si evidenziava una
mancanza di effetto dei betabloccanti sulla prognosi a lungo termine di
pazienti con o senza pregresso infarto del miocardio (IM), le linee guida ESC 2013-5, in contrasto con le
precedenti e con quelle americane ACC/AHA7, di fatto non prevedevano l'uso di
questi farmaci per prevenire gli eventi nei pazienti con cardiopatia ischemica
stabile.
Questa posizione assunta dalle linee guida ESC merita pero' un
commento, legato a nuove evidenze sia scientifiche che epidemiologiche. Nello
studio pubblicato da Andersson et al.nel 2014, si evidenzia, infatti, come
un precoce inizio della terapia betabloccante dopo un IM possa determinare una
riduzione di eventi anche a distanza dall'evento acuto. Va considerato, inoltre,
il documentato effetto positivo dei betabloccanti nel ridurre gli eventi nei
pazienti con SC o disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale. e' una
categoria di pazienti ad alto rischio di morte o reinfarto, poco rappresentata
nei trial, ma sicuramente molto presente nella pratica clinica.
Sulla base di queste considerazioni e delle nuove evidenze si ritiene che i betabloccanti rappresentino sempre la terapia di prima scelta anche nella cardiopatia ischemica cronica.
Le raccomandazioni dell'ESC sull'uso dei calcioantagonisti nel trattamento della cardiopatia ischemica cronica si basano su studi non recenti, come il CASIS (Canadian Amlodipine/Atenolol in Silent Ischemia Study) per l'amlodipina e l'APSIS (Angina Prognosis Study in Stockholm) per il verapamil. Di fatto il loro impiego nella pratica clinica si e' molto ridotto, anche in considerazione della frequente comparsa di effetti collaterali, che riducono l'aderenza dei pazienti a questo trattamento. Anche l'associazione dei calcioantagonisti ai betabloccanti manca di solide prove di efficacia in termini di controllo dei sintomi, accompagnandosi, tra l'altro, ad un potenziamento degli effetti bradicardizzanti ed ipotensivanti dei betabloccanti. In considerazione di quanto detto si ritiene di fatto relativamente debole l'indicazione delle stesse linee guida ESC 2013 e limitato il loro possibile utilizzo nel trattamento della cardiopatia ischemica cronica sintomatica.
Per quanto ancora fortemente diffusi nella pratica clinica, il ruolo dei nitroderivati a lunga durata d'azione nella terapia cronica dei pazienti con cardiopatia ischemica cronica non si basa su fondate evidenze. Gia' le linee guida NICE del 2012 avevano sottolineato questo aspetto, ribadito anche dalle linee guida ESC, suggerendo un'attenta revisione critica dell'uso di questi farmaci, i cui effetti sono sicuramente limitati dalla comparsa della tolleranza, che di fatto impone l'utilizzo di schemi terapeutici che prevedono una finestra libera da somministrazione. Va inoltre considerato il peggioramento della funzione endoteliale indotto dalla somministrazione a lungo termine dei nitroderivati a lunga durata d'azione. Il loro utilizzo attualmente viene considerato in classe llb, mentre rimangono di prima scelta i nitrati a breve durata d'azione (raccomandazione IB); si raccomanda pertanto una riconsiderazione critica sull'uso di questi farmaci che non hanno fondate evidenze per essere utilizzati nel trattamento routinario dei pazienti sintomatici con cardiopatia ischemica cronica, come invece avviene ancora troppo spesso nella pratica clinica.
Nello studio SIGNIFY (Study Assessing the MorbidityMortality Benefits of the lf Inhibitor Ivabradine in Patients with Coronary Artery Disease), condotto su 19102 pazienti con cardiopatia ischemica stabile senza SC, con frazione di eiezione >40% e frequenza cardiaca >70 b/min in ritmo sinusale, l'aggiunta di ivabradina non determinava una riduzione significativa dell'endpoint composito di morte cardiovascolare e IM ad un followup di 27.8 mesi. Numerose critiche sono state rivolte sul disegno stesso di questo studio, sulla selezione di una popolazione a basso rischio, sull'uso del farmaco a dosi inappropriate perche' superiori a quelle approvate, con eccessiva bradicardizzazione e incremento di incidenza della fibrillazione atriale. Il farmaco e' stato inoltre utilizzato nel 4.6% dei pazienti in un'associazione inappropriata con verapamil o diltiazem o con inibitori forti del citocromo CYP3A4 (ketoconazolo, macrolidi, succo di pompelmo); in questo sottogruppo si evidenziava un incremento del 61 % dell'endpoint primario e del 93% dell'IM non fatale. Escludendo questi pazienti il piccolo incremento di rischio osservato nello studio nel sottogruppo dei pazienti con angina limitante viene a scomparire. Evidenze diverse e piu' favorevoli si erano ottenute in studi precedenti condotti in popolazioni con cardiopatia ischemica stabile e SC o disfunzione ventricolare sinistra. Lo studio BEAUTIFUL (MorbidityMortality Evaluation of the lf Inhibitor Ivabradine in Patients With Coronary Artery Disease and Left Ventricular Dysfunction), ad esempio, condotto su 10 917 pazienti con malattia coronarica e frazione di eiezione ventricolare sinistra <40%, nel sottogruppo predefinito di pazienti con frequenza cardiaca >70 b/min, il trattamento con ivabradina non aveva influenzato l'endpoint primario composito ma aveva ridotto gli endpoint secondari (ricovero in ospedale per IM fatale e non fatale e rivascolarizzazione miocardica).
In un sottogruppo con frequenza >70 b/min e angina limitante il farmaco inoltre aveva ridotto l'endpoint primario. Nello SHIFT (Systolic Heart failure treatment with the lf inhibitor ivabradine Trial)170 il farmaco e' stato testato in associazione con betabloccanti, se tollerati, su pazienti con SC sintomatico, nei due terzi dei casi di origine ischemica, con frazione di eiezione del ventricolo sinistro s35%, in ritmo sinusale con frequenza cardiaca >70 b/min, con un'ospedalizzazione nell'anno precedente per scompenso cardiaco; si e' osservata una riduzione dell'endpoint primario composito di mortalita' cardiovascolare od ospedalizzazione per peggioramento dello SC, guidata principalmente dalla riduzione delle ospedalizzazioni per peggioramento dello SC e della mortalita' per SC. Va detto che il dosaggio dei betabloccanti utilizzato era inferiore a quello raggiunto negli studi autorizzativi per i diversi farmaci anche se paragonabile a quello in uso nel mondo reale; in ogni caso anche nello SC e' la riduzione della frequenza cardiaca e non la dose di betabloccante ad essere in rapporto con il miglioramento della prognosi.
Infine nello studio ASSOCIATE (evaluation of the Antianginal efficacy and Safety
of the aSsociation Of the lf Current Inhibitor ivAbradine with a beTablockEr)172
l'ivabradina in associazione all'atenololo aveva dimostrato di prolungare
significativamente rispetto al placebo la durata dell'esercizio e il tempo di
insorgenza di sottoslivellamento del tratto ST di 1 mm (13% in piu').
In definitiva l'uso di ivabradina va quindi considerato per il controllo dei
sintomi in associazione ai betabloccanti (da valutare monitorando con
particolare attenzione la frequenza cardiaca), oppure come prima scelta in caso
di controindicazione ai betabloccanti, soprattutto nei pazienti portatori di
cardiopatia ischemica stabile con SC o disfunzione ventricolare sinistra.
Recentemente la ranolazina e' stata testata vs placebo nel RlVERPCI (Ranolazine
for Incomplete Vessel Revascularization PostPercutaneous Coronary Intervention)
in una popolazione di pazienti con angina cronica e rivascolarizzazione
incompleta (definita come persistenza di una o piu' stenosi >50% in vasi >2 mm di
diametro dopo PCI). L'endpoint primario (tempo tra la randomizzazione e la
prima occorrenza di rivascolarizzazione per ischemia miocardica o di
ospedalizzazione senza rivascolarizzazione) non veniva ridotto dal farmaco. e'
stata pubblicata anche un'analisi sulla qualita' di vita dei pazienti nello
studio, condotta con l'uso del SAQ, per misurare la frequenza e quindi la
severita' della sintomatologia anginosa. Lo score della frequenza dell'angina
migliorava marcatamente nel corso dello studio ma in modo simile nel gruppo
trattato con ranolazina e in quello trattato con placebo. Un miglioramento
della frequenza dell'angina era evidente a 6 mesi nei diabetici trattati con ranolazina e nei pazienti piu' sintomatici ma in ambedue i casi il vantaggio
scompariva a 12 mesi.
Lo studio ha comunque numerose limitazioni, la principale delle quali e'
rappresentata dal fatto che molti pazienti dopo l'esecuzione della PCI erano
asintomatici o paucisintomatici: infatti la definizione di rivascolarizzazione
incompleta si e' basata solo su un criterio anatomico e non sulla reale presenza
di ischemia residua. Per ammissione degli stessi autori, infatti,
molte delle lesioni non trattate (placca con stenosi angiografica valutata
dall'operatore >50%) potevano avere avuto un impatto clinico modesto; d'altra
parte, non poteva attendersi che il farmaco modificasse la progressione della
placca o avesse effetti sulla restenosi/trombosi intrastent, che ha causato
circa il 50% degli eventi; infine e' evidente come sia arduo interpretare i
risultati di un trial che ha avuto in oltre il 35% dei casi l'interruzione della
terapia durante il follow-up.
In precedenza, nel MERLIN-TIMI (Metabolic Efficiency With Ranolazine for Less
Ischemia in Non-ST-Elevation Acute Coronary Syndromes-Thrombolysis in Myocardial
Infarction) , era stata valutata la capacita' della ranolazina di ridurre gli
eventi (endpoint primario composito di morte cardiovascolare, IM ed ischemia
ricorrente) dopo IM senza sopraslivellamento del tratto ST17B. Il farmaco non
aveva ridotto l'endpoint primario ma aveva determinato una riduzione
dell'ischemia ricorrente soprattutto grazie alla riduzione dei casi di
peggioramento della sintomatologia anginosa. Qui infatti si osservava una
riduzione dello score SAQ tra i pazienti trattati con ranolazina.
Tra gli studi precedenti sull'influenza della ranolazina sulla durata
dell'esercizio e sulla frequenza degli attacchi anginosi, particolare
attenzione meritano i dati emersi dallo studio CARISA (Combination Assessment of
Ranolazine In Stable Angina). Lo studio CARISA puo' essere preso in
considerazione in questo contesto in quanto prevedeva l'associazione della ranolazina con betabloccanti, diltiazem o amlodipina in pazienti con angina
cronica stabile sintomatici. L'aggiunta di ranolazina alla terapia betabloccante
determinava rispetto al placebo un incremento della durata dell'esercizio e del
tempo di esordio dell'angina significativo alle concentrazioni di picco e di
valle del farmaco, ed un incremento del tempo al sottoslivellamento di 1 mm del
tratto ST significativo solo alle concentrazioni di picco. Ha, inoltre,
determinato una riduzione significativa della frequenza settimanale degli
attacchi anginosi e del consumo di nitroglicerina al bisogno.
In definitiva, l'uso di ranolazina nella cardiopatia ischemica cronica per il
controllo dei sintomi va considerato in associazione ai betabloccanti nei
pazienti con angina, oppure come prima scelta nei pazienti con controindicazioni
all'uso dei betabloccanti. La ranolazina, come indicato dalle recenti linee
guida ESC 2013-5, possiede inoltre particolari evidenze cliniche di efficacia
anti-ischemica ed antianginosa anche nei pazienti anginosi diabetici ed in
quelli con angina microvascolare.
In conclusione, nel trattamento sintomatologico del paziente con cardiopatia
ischemica cronica, la terapia antianginosa di prima linea
prevede sicuramente l'utilizzo estensivo di farmaci betabloccanti. Questi
farmaci, infatti, hanno dimostrato una chiara efficacia nel controllo
dell'angina da sforzo, migliorando la capacita' di esercizio fisico e riducendo
la comparsa di episodi ischemici sintomatici e non. Sebbene in prima linea siano
indicati dalle linee guida ESC 2013 anche i
calcioantagonisti, il loro uso non e' supportato da solide evidenze scientifiche
e pertanto andrebbe rivisto in maniera critica.
Spesso la monoterapia non e' sufficiente per il controllo dei sintomi ed e' quindi
necessario associare un secondo farmaco. L'unico farmaco antianginoso
disponibile che agisce senza impattare sul profilo emodinamico del paziente e' la
ra-nolazina. Infatti la ranolazina, grazie al peculiare meccanismo d'azione,
agisce in maniera specifica su un'alterazione caratteristica dell'ischemia,
senza alterare la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa.
Da valutare l'eventuale utilizzo dei seguenti farmaci, tenendo conto delle
relative osservazioni:
- calcioantagonisti non diidropiridinici: come sottolineano le linee guida
l'utilizzo concomitante di betabloccanti e calcioantagonisti non
diidropiridinici, come diltiazem e verapamil, non e' consigliato, a causa del
rischio di bradicardia e blocco atrioventricolare;
- calcioantagonisti diidropiridinici: l'utilizzo di un'associazione
betabloccanti con calcioantagonisti diidropiridinici, come amlodipina, nella
pratica clinica e' molto limitato, in quanto piu' che l'effetto antianginoso del
farmaco, si tende a sfruttarne l'effetto antipertensivo; questo effetto,
inoltre, in aggiunta all'azione ipotensivante dei betabloccanti, puo'
determinare un'eccessiva riduzione della pressione arteriosa;
- ivabradina: l'utilizzo dell'ivabradina puo' esacerbare l'azione
bradicardizzante dei betabloccanti, con tutti i rischi associati. Inoltre, il
suo utilizzo e' limitato a pazienti con normale ritmo sinusale e frequenza
cardiaca a 70 b/min21;
- nitrati a lunga durata d'azione: le linee guida ESC 2013 sulla gestione della
cardiopatia ischemica cronica ritengono che l'utilizzo routinario dei nitrati a
lunga durata d'azione per la gestione della sintomatologia anginosa debba essere
rivalutato criticamente in ogni paziente. I nitrati, infatti, non hanno
un'efficacia continua se assunti per un periodo prolungato, necessitano quindi
di un intervallo libero dall'utilizzo e possono indurre un peggioramento della
funzionalita' endoteliale come potenziale complicanza;
- trimetazidina: farmaco
non valutato in trial clinici su larga scala.
Nel paziente con controindicazioni al trattamento con betabloccanti, alla luce
delle osservazioni gia' riportate, il trattamento di prima scelta e'
rappresentato dalla ranolazina o dall'ivabradina (limitatamente a pazienti in
ritmo sinusale, con frequenza cardiaca a 70 bpm e con disfunzione del ventricolo
sinistro).
Rimane da valutare criticamente l'utilizzo di calcioantagonisti, nitrati a
lunga durata d'azione e trimetazidina, tenendo conto dei limiti relativi
associati.
-Sacubitril e Valsartan sono due principi attivi sacubitril e valsartan, impiegati in associazione per non perdere la loro efficacia. Viene impiegato negli adulti con insufficienza cardiaca cronica che manifestano i sintomi della malattia. L'insufficienza cardiaca è caratterizzata dall'incapacità del cuore di pompare la quantità necessaria di sangue nel circolo sanguigno, per cui il rene e l'atrio cardiaco percepiscono la riduzione della volemia ed attuano dei meccanismi di compenso. Il farmaco è in compresse a differente dosaggio (24 mg sacubitril / 26 mg valsartan, 49 mg sacubitril / 51 mg valsartan, e 97 mg sacubitril / 103 mg valsartan). Le compresse vanno assunte due volte al giorno. La dose iniziale raccomandata è di una compressa di Entresto 49 mg / 51 mg due volte al giorno. La dose viene poi raddoppiata dopo 2-4 settimane a 97 mg / 103 mg due volte al giorno. Per alcuni pazienti il medico può decidere dosi inferiori. I due principi attivi, sacubitril e valsartan, agiscono con modalità diverse. Sacubitril blocca la scissione dei peptidi natriuretici prodotti nell'organismo. I peptidi natriuretici determinano il passaggio di sodio e di acqua nelle urine, riducendo cosi lo sforzo del cuore. I peptidi natriuretici riducono anche la pressione arteriosa e proteggono il cuore dallo sviluppo di fibrosi (tessuto cicatriziale) secondarie all'insufficienza cardiaca. Valsartan è un 'antagonista dei recettori dell'angiotensina II, che blocca il recettore ed impedisce all'altra specialità di annullare i suoi effetti ,che in sostanza sono natriuretici.