Nella steatosi epatica e nell'epatopatia alcolica severa una dieta adeguata e l'astinenza
alcolica nel secondo caso rappresentano le misure mediche di supporto che possono
esse daiuto nel migliorare lo stato clinico del paziente e la terapia farmacologica
può essere un importante aiuto. Sono stati utilizzati diversi agenti nel trattamento
dell'epatite alcolica e della fibrosi alcolica.
Il VA Cooperative Study Group ha riportato che la malnutrizione peggiora la prognosi dell'epatite alcolica. Questo studio ha trovato che i pazienti con severa malnutrizione proteico-calorica avevano una mortalità a 6 mesi dal 20 al 50%, in contrasto con i pazienti con malnutrizione lieve, in cui la mortalità variava dallo 0 al 9%.
Il concetto che il supporto nutrizionale possa migliorare la prognosi dei pazienti con epatite alcolica ha portato allo sviluppo di diversi trial controllati sulla nutrizione enterale e parenterale nei pazienti ospedalizzati. Sebbene i singoli studi abbiano impiegato diverse formule di nutrizione e diverse vie di somministrazione, gli end-point scelti erano simili e i risultati erano estremamente compatibili.
Al contrario delle attese, i supplementi nutrizionali producevano un miglioramento scarso o nullo sullo stato nutrizionale, sui parametri di laboratorio di danno epatico o sulla sopravvivenza. Nonostante questi risultati negativi, il supporto enterale può ancora avere valore in generale nei pazienti ospedalizzati con epatite alcolica, in particolare nei pazienti anoressici, che consumano meno del 75% del loro fabbisogno calcolato di energia e proteine quotidiano. Le formule di aminoacidi a catena ramificata sono costose e le preparazioni convenzionali non hanno dimostrato di causare encefalopatia epatica anche nei pazienti con cirrosi e ipertensione portale.
A causa delle loro
vaste proprietà anti-infiammatorie e immunosoppressive, i glucocorticoidi sono stati
considerati il logico trattamento per l'epatite alcolica. Tra il 1971 e il 1989,
almeno 11 trial pubblicati, controllati con placebo, hanno esaminato gli effetti
dei glucocorticoidi sui pazienti con epatopatia alcolica acuta. Sebbene gli studi
coinvolgessero un totale di 562 pazienti, i risultati sono stati molto diversi.
Solo 4 degli 11 trial hanno dimostrato una riduzione della mortalità a breve termine
da parte dei glucocorticoidi. La variabilità dei risultati è stata
determinata da numerosi fattori, tra cui differenze di genere, di severità della malattia epatica,
di funzione renale, di stato nutrizionale e anche di sede. Nello sforzo di risolvere
la controversia riguardante l'efficacia dei glucocorticoidi, Imperiale e McCullogh
hanno effettuato una metanalisi degli 11 trial clinici.
Combinando tutti i dati hanno trovato che il rischio relativo di mortalità a breve
termine era di 0.63 nei pazienti trattati con glucocorticoidi. Quando restringevano
l'analisi a includere solo gli studi di qualità più elevata, i glucocorticoidi
dimostravano un beneficio ancora più evidente, con un rischio di mortalità relativo
di 0.41. I glucocorticoidi erano efficaci sia per somministrazione orale che
endovenosa (come prednisolone 40 mg/die o metilprednisolone 32 mg/die). Negli studi
che dimostravano efficacia, il trattamento a piene dosi era continuato per 28-30
giorni, seguito nella maggior parte dei casi, da uno scalare di 2-4 settimane. Si
sono talora verificate infezioni severe nei pazienti trattati con glucocorticoidi,
ma sono state rare e apparentemente non più frequenti che nei pazienti che hanno
ricevuto placebo.
La metanalisi ha confermato il sospetto, sorto in molti degli
studi individuali, che i glucocorticoidi siano efficaci solo nel sottogruppo degli
alcolisti con il danno epatico più severo. Un modo di identificare questi pazienti
è la funzione discriminante di Maddrey e collaboratori. L'encefalopatia identifica
anche i pazienti con un'elevata mortalità a breve termine; infatti nella metanalisi
l'encefalopatia era il più importante fattore predittivo di risposta ai glucocorticoidi.
Il concetto che l'encefalopatia sia richiesta per una risposta ai glucocorticoidi
è stato messo in dubbio da Ramond e colleghi, che hanno studiato 61 pazienti con
una funzione discriminante maggiore di 32, e hanno dimostrato che i glucocorticoidi
miglioravano la sopravvivenza in modo significativo, sia che fosse o non fosse presente
encefalopatia. In uno studio successivo. Mathurin e associati hanno riportato che
la neutrofilia periferica (maggiore di 5500/mm3) poteva anche essere utilizzata
per predire la risposta ai glucocorticoidi. Da notare che lo studio di Mathurin
e colleghi è stato il primo a riportare i dati di follow-up a lungo termine, per
i pazienti trattati con glucocorticoidi per l'epatite alcolica. I loro risultati
indicano che il beneficio, in termini di sopravvivenza, di un trattamento di 4 settimane
con prednisolone. dura per almeno un anno.
Nella metanalisi di Imperiale e McCullough il trattamento migliorava la sopravvivenza solo quando non venivano presi in considerazione i pazienti con emorragia gastrointestinale. I glucocorticoidi non aumentavano il rischio di emorragia gastrointestinale, ma il sanguinamento aveva un rischio di mortalità indipendente talmente elevato che vanificava l'effetto dei glucocorticoidi. Una scadente funzione renale alla randomizzazione può anche limitare il beneficio dei glucocorticoidi. I pazienti con epatite alcolica, con livelli sierici di creatinina maggiori di 2.5 mg/dl, avevano un elevato rischio di progressione all'insufficienza renale, con una frequenza di mortalità a breve termine del 75%, con o senza terapia con glucocorticoidi. Quando si valutano questi pazienti per la terapia glucocorticoidea, dovrebbero essere escluse certe patologie confondenti tra cui la presenza di un'infezione attiva, la pancreatite e un possibile diabete mellito insulino-dipendente. Una seconda metanalisi, che ha esaminato il beneficio dei glucocorticoidi nell'epatite alcolica, è stata pubblicata nel 1995. Gli autori di questo studio sono giunti alla conclusione opposta, ovvero che i glucocorticoidi non migliorano la sopravvivenza dei pazienti. Nella loro analisi hanno usato funzioni di aggiustamento statistiche per correggere gli squilibri nelle variabili confondenti. Questa metodologia differiva da quella del primo studio, in cui i dati agli estremi sono stati esclusi. Al momento, quindi, rimane controverso l'uso dei glucocorticoidi nell'epatite alcolica, non solo perché la loro efficacia non è certa, ma anche perché molti potenziali candidati alla terapia mostrano uno o più criteri di esclusione. Nonostante siano rivolti a una popolazione limitata, i glucocorticoidi sono considerati abbastanza benefici da essere raccomandati dall'American College of Gastroenterolgy nel trattamento dell'epatite alcolica.
La pentossifillina può ridurre l'infiammazione, inibendo la sintesi di
TNF. Questo farmaco è stato testato, nel 2000, nel trattamento dell'epatite alcolica,
in uno studio controllato randomizzato su 101 pazienti. Tutti i pazienti avevano
un'epatite alcolica severa, giudicata in base a una funzione discriminante maggiore
di 32; 49 sono stati trattati con pentossifillina (400 mg per os, tre volte al giorno)
per 4 settimane, e 52 hanno ricevuto un placebo. La pentossifillina non ha causato
una significativa riduzione nei livelli plasmatici di TNF nei pazienti trattati.
Ha prodotto, tuttavia, un beneficio in termini di sopravvivenza e una significativa
protezione verso la sindrome epatorenale. La mortalità a 4 settimane nel gruppo
placebo è stata del 46.1%, come predetto dalla funzione discriminante. Nel gruppo
della pentossifillina la mortalità, nello stesso periodo di tempo, è stata del
24.5%. Inoltre la pentossifillina ha ridotto la frequenza di sindrome epatorenale
dal 34.6% all'8.2%. Il meccanismo d'azione della pentossifillina può essere correlato
agli effetti benefici del farmaco sul microcircolo, in particolare nel rene. I risultati
con la pentossifillina sembrano promettenti, ma richiedono una conferma.
Nel fegato di animali nutriti con alcol sono state notate alterazioni dei fosfolipidi mitocondria-li, che sono state implicate nella disfunzione mitocondriale epatica indotta dall'alcol. Una modalità che è stata proposta, per migliorare la disfunzione mitocondriale indotta dall'alcol, è di fornire supplementi di fosfolipidi. Un estratto di soia contenente lecitina polinsatura (LPI) ha teoricamente un effetto di stabilizzazione della membrana; questo composto è stato testato per la prima volta da Lieber e colleghi nel trattamento dei babbuini nutriti con alcol. In uno studio durato 10 anni, la LPI non ha prevenuto le anomalie mitocondriali indotte dall'alcol nelle cellule epatiche.
Il composto, tuttavia, ha attenuato significativamente
la fibrosi epatica (75% verso 0% di fibrosi nei controlli verso il gruppo dei trattati,
n = 8). La specie di fosfolipide attivo nella LPI è la polienilfosfatidilcolina
(PPC). Nelle colture cellulari, la PPC è in grado di inibire l'attivazione delle
cellule stellate epatiche, riduce inoltre l'induzione del CYP2E1 e può ridurre
l'apoptosi correlata all'etanolo in vivo. Negli animali intatti la PPC riduce la
perossidazione lipidica indotta dall'etanolo e restaura il glutatione epatico.
Uno studio controllato sulla PPC è attualmente in corso nei pazienti con epatopatia
alcolica.
La S-adenosil-metionina (SAMe) preserva le scorte mitocondriali di glutatione, negli epatociti trattati con alcol, e può proteggerli contro il danno indotto dall'alcol. Uno studio sui babbuini mostra che la SAMe è un trattamento promettente per l'epatopatia alcolica, ed è stato seguito da un trial randomizzato controllato sull'uomo. Nello studio, 123 pazienti con cirrosi alcolica (nell'84% dei casi dimostrata istologicamente) hanno ricevuto SAMe 400 mg per os tre volte al dì, oppure placebo, per 2 anni. L'end-point primario era la morte o il trapianto epatico. Più del 90% dei pazienti aveva una cirrosi in classe A o B di Child-Turcotte-Pugh; metà di essi ha continuato a bere alcol durante lo studio.
La SAMe ha migliorato la sopravvivenza complessiva a 2
anni, dal 70 all'84%, ma la differenza non è risultata statisticamente significativa.
Quando erano esclusi i pazienti in classe C di Chil-Turcotte-Pugh, la differenza
si ampliava abbastanza da raggiungere la significatività statistica (P = 0.046).
I decessi in entrambi i gruppi sono avvenuti principalmente per causa epatica. Come
la PPC, la SAMe può avere un ruolo nel trattamento a lungo termine dell'epatopatia
alcolica. Tuttavia, poiché gli effetti di questo singolo studio sono stati abbastanza
modesti, dovrebbero essere trattati più pazienti per determinare se il farmaco abbia
un reale beneficio. Se la SAMe possa migliorare l'epatite alcolica acuta piuttosto
che l'epatopatia cronica deve ancora essere investigato.
Istologia epatica: condizione di steatosi,
aspetto vacuolare con accumulo di lipidi
La silimarina, un composto antiossidante derivato dal cardo mariano, è
stata esaminata come trattamento a lungo termine dell'epatopatia alcolica. In uno
studio, 91 pazienti con cirrosi alcolica sono stati randomizzati a ricevere silimarina,
140 mg per os tre volte al dì, oppure placebo, per 2 anni. La
silimarina ha migliorato la sopravvivenza a 4 anni nei pazienti trattati, ma l'effetto
è stato limitato agli individui con una cirrosi in classe A di Child-Turcotte-Pugh.
Il fatto che il consumo di alcol non fosse strettamente controllato in questa popolazione,
può spiegare le sopravvivenze a 4 anni relativamente elevate del 50 e dell'80%,
rispettivamente nei gruppi di controllo e della silimarina. Un secondo studio sulla
silimarina è stato condotto su 200 pazienti con cirrosi alcolica, di cui metà circa
in classe B di Child. Questi pazienti hanno ricevuto anch'essi la silimarina, 150
mg per os tre volte al dì, o il placebo, per 2 anni. In contrasto con lo studio
precedente, questo trial non ha dimostrato alcun beneficio, in termini di sopravvivenza,
da parte del trattamento con silimarina. La sopravvivenza complessiva a 5 anni nel
secondo studio era buona per i pazienti in classe B di Child-Turcotte-Pugh (71 %
nel gruppo della silimarina, 76% nel gruppo placebo). Gli autori hanno to
la prognosi favorevole ai loro sforzi rigorosi per garantire l'astinenza e non allimpiego
di silimarina.
Ursodessosicolico. La sua funzione fisiologica è quella di regolare l'assorbimento intestinale del colesterolo, influenzandone la quota di assorbimento per derivazione dalle micelle lipidiche digestive. Sono stati scoperti sia altri aspetti della sua fisiologica, che diversi meccanismi molecolari con cui l'acido ursodesossicolico esercita le sue azioni nell'uomo. A livello epatico stimola la secrezione di ATP da parte degli epatociti; quale sia il significato di quest'azione, non è ancora conosciuto. Si sa però che interagisce col sistema dei citocromi P450 e che riduce la glicuronazione degli estrogeni sintetici. Questo potrebbe spiegare in parte i suoi effetti benefici sulla colestasi epatica. è riportato attivare direttamente il recettore per i glucocorticoidi, il che contribuirebbe ad allargare i meccanismi della sua azione anticolestatica ed antiinfiammatoria sul parenchima epatico. Sembra che possa fungere da agonista parziale del recettore dei farnesoidi o FXRalpha, un recettore nucleare di recente scoperta che può legare metaboliti endogeni idrofobi. Questo recettore è coinvolto nell'espressione di proteine ed enzimi protettivi e/o regolatori del metabolismo intermedio. L'UDCA, quindi riduce la colestasi e l'intossicazione epatica stimolando dei meccanismi endogeni di difesa. Stimola la sintesi del glutatione (GSH), potente antiossidante endogeno, attraverso l'intervento delle chinasi dipendenti dai fosfoinositidi (PI-3K e PKB). Questo meccanismo potrebbe giustificarne l'impiego corrente nelle epatiti croniche. è una scoperta di qualche anno fa il fatto che esiste un altro meccanismo con cui l'UDCA può proteggere il tessuto epato-biliare. Si tratta dell'attivazione di un fattore di trascrizione particolare chiamato Nrf-2, presente allo stato di riposo nel citoplasma di tutte le cellule.
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