Il cancro è causato da alterazioni a carico dei geni; distinguiamo oncogeni, geni oncosoppressori e microRNA. Tali alterazioni sono di solito eventi somatici, sebbene mutazioni germinali possano predisporre un individuo allo sviluppo di tumori ereditari o famigliari.
Una singola mutazione genica è raramente sufficiente affinché si sviluppi un tumore maligno, mentre numerosi studi hanno dimostrato che la trasformazione neoplastica è un processo multifasico che prevede numerose alterazioni sequenziali a carico di oncogeni, oncosoppressori e microRNA in una cellula carcinomatosa.
D'altra parte già gli studi di epidemiologia in passato avevano fatto ipotizzare che più eventi moleari fossero necessari per determinare l'insorgenza iella maggior parte dei tumori. Infatti, generalmente i carcinomi sono abbastanza rari in età infantile e giovanile, mentre la loro frequenza aumenta in maniera logaritmica con l'avanzare dell'età ci sono specifiche mutazioni che possono rendere la cellula più aggressiva rispetto ad altre.
Quindi la cellula può essere differente anche nel contesto di una stessa massa tumorale, può esprimere proteine cellulari superficiali, produrre altre proteine alterate, presentare alterazioni metaboliche e di comportamento. Ad esempio un clone produce un fattore di crescita e una altra cellula tumorale ne produce un altro; man mano che si riproducono saranno sempre più diverse dal clone di partenza. E' una cellula atipica, autonoma: non più sottoposta a meccanismi di controllo; sono autonome anche rispetto alle cellule del tessuto sano e alle cellule tumorali e perdono l'inibizione da contatto ad esempio e la proliferazione va avanti in maniera afinalistica. Afinalismo significa che la cellula tumorale si divide in modo afinalistico senza una modalità che comprende un fine, senza esigenze funzionali nel contesto di quell'organo, quindi cresce per sè stessa, per avere un vantaggio rispetto alle cellule sane e alle altre tumorali. Progressività: si replica in modo indefinito e tende sempre più ad acquisire le caratteristiche di malignità e invadere i tessuti distanti. Tale andamento può essere solamente spiegato come dovuto all'accumulo di più alterazioni geniche nell'ambito di una stessa cellula affinché essa possa andare incontro a trasformazione, e quindi dare origine ad una neoplasia.
Come dimostrato attraverso studi di citogenetica, i tumori sono generalmente
costituiti da cloni differenti di cellule tumorali (eterogeneità clonale)
derivanti dalla cellula trasformata iniziale a seguito di alterazioni geniche
secondarie e terziarie. Nella popolazione di cellule tumorali sono inoltre
incluse alcune cellule progenitrici neoplastiche (cancer stem cells),
caratterizzate da uno spettro estremamente variabile di stadi differenziativi e
di alterazioni geniche. Tutte queste popolazioni cellulari possono differire moltissimo per la loro
sensibilità alla chemioterapia, radioterapia, ed altri trattamenti
farmacologici, rendendo difficili le scelte terapeutiche e la gestione clinica
della malattia. Pertanto, gli eventi molecolari che si verificano durante le
tappe iniziali dello sviluppo tumorale rappresentano un aspetto importantissimo
dal punto di vista clinico ed hanno un ruolo prioritario nella scelta della
corretta terapia di una patologia neoplastica.
Sono da considerarsi oncogeni tutti quei geni che in seguito ad eventi molecolari che ne determinano un guadagno di funzione ("gain-of-function") favoriscono la trasformazione e la progressione neoplastica. Si tratta di geni dominanti, ed è quindi sufficiente che l'alterazione avvenga in eterozigosi (a carico di un solo allele) affinché essa si traduca nel fenotipo trasformato.
Gli oncogeni, quindi, rappresentano varianti alterate di geni cellulari altamente conservati durante l'evoluzione, chiamati proto-oncogeni, che codificano per proteine essenziali nei processi fisiologici di proliferazione, sopravvivenza e differenziamento cellulare (fattori di crescita, recettori di membrana, proteine coinvolte nella trasduzione del segnale e fattori di trascrizione).
La
conversione dei protooncogeni ad oncogeni, e la conseguente trasformazione
cellulare, può avvenire attraverso due meccanismi principali:
a) alterazioni strutturali del prodotto proteico (alterazioni qualitative) o
b) alterazioni della regolazione della sua espressioni (alterazioni
quantitative).
Le prime possono essere causate da:
a) mutazioni puntiformi a carico del proto-oncogeni; che alterano la
funzionalità del prodotto proteici finale. Ad esempio, sono note numerose
mutazioni puntiformi a carico del gene RET in pazienti affetti dalle sindromi
endocrine neoplastiche multiple MEN 2, che colpiscono diverse ghiandole
endocrine tra cui la tiroide;
b) riarrangiamenti cromosomici che troncano il protooncogene e determinano la
formazione di geni di fusione codificanti per proteine chimeriche dotate di
proprietà trasformanti. Un classico esempio di tali riarrangiamenti sono gli
oncogeni chimerici RET/PTC nei carcinomi papilliferi della tiroide).
L'aumentata espressione dell'oncogene può invece essere causata da:
a) amplificazione genica a causa di errori durante il processo di replicazione
del DNA; il gene c-ErbB2/ HER2, ad esempio, è frequentemente amplificato nei
carcinomi della mammella. In genere l'amplificazione genica si verifica nel
corso della progressione tumorale;
b) alterazione del controllo trascrizionale del proto-oncogene. Nel linfoma di
Burkitt, ad esempio, una traslocazione determina lo spostamento del
proto-oncogene c-myc dal cromosoma 8 ad altri cromosomi. In seguito a tali
riarrangiamenti cromosomici, c-myc si viene a trovare sotto il controllo
trascrizionale dei promotori delle catene pesanti (t(8; 14)) oppure leggere
(t(8;2) e t(8;22)) delle immunoglobuline.
Come le traslocazioni, anche le inversioni cromosomiche possono essere responsabili dell'aumentata espressione di un proto-oncogene. In questo caso il gene viene trasferito da un sito all'altro dello stesso cromosoma a seguito di una rotazione di 181°. T a tecnica del bandeggio cromosomico permette di evidenziare tale fenomeno per la presenza di bande in posizione invertita rispetto al cromosoma omologo. Tra le inversioni cromosomiche correlate ai tumori si ricordano l'inversione inv(16) (pl3;q22) nella leucemia mielomonocitica acuta, la inv(3)(q21 ;q26) nella leucemia mieloide acuta e la inv( 14)(ql 1 ;q32) nei linfomi a cellule T. Il genoma retrovirale è caratterizzato dalla presenza di geni peculiari che assicurano lo svolgimento delle operazioni essenziali per la sopravvivenza del virus stesso, chiamati gag, poi ed env, e codificanti rispettivamente per le proteine strutturali del nucleo-capside virale, per la trascrittasi inversa (necessaria per la replicazione del virus) e per le proteine del pericapside virale. Molti retrovirus presentano anche geni a funzione accessoria o regolatoria, particolarmente importanti, ad esempio, per il virus HIV.
La trascrittasi inversa è detta anche DNA-polimerasi RNA-dipendente e consente la conversione (retrotrascrizione) del genoma virale ad RNA in una molecola di DNA a doppio filamento; la sua scoperta, operata nel 1970 dal virologo statunitense Howard Temin e dal biologo molecolare David Baltimore, scardinò il dogma della genetica secondo cui l'informazione genetica fluisce dal DNA ali'RNA e non viceversa. I retrovirus, come tutti i virus, possono replicarsi soltanto all'interno di una cellula ospite e, in particolare, i retrovirus parassitano esclusivamente cellule di organismi eucarioti. Dopo aver preso contatto con la membrana plasmatica della cellula ospite, il retrovirus vi inocula il proprio materiale genetico e gli enzimi necessari per la replicazione virale.
La trascrittasi inversa, quindi, dirige nel citoplasma della cellula ospite la sintesi di un filamento di DNA a partire dalla molecola di RNA virale, secondo un processo chiamato trascrizione inversa. Il filamento di DNA così formatosi (anche detto pro-virus) penetra nel nucleo e si integra nel genoma della cellula infettata. L'integrazione del prò-virus avviene grazie ad un enzima virale, l'integrasi, in grado di riconoscere alcune sequenze poste alle estremità del pro-virus, dette LTR (Long Terminal Redundancy-repeats). Le LTR. oltre ad essere fondamentali per il processo di integrazione retrovirale, svolgono anche un ruolo di regolazione dell'espressione dei geni del virus.
Una volta integratosi,
il retrovirus può rimanere silente anche per diversi anni, prima di scatenare
patologie nell'organismo ospite. I retrovirus sono responsabili di infezioni in
molti organismi viventi come uccelli e mammiferi, tra cui l'uomo. Alcuni ceppi,
compresi nella sottofamiglia Oncovirinae, possono determinare l'insorgenza di
forme di cancro e vengono perciò genericamente definiti oncovirus. I retrovirus
oncògeni possono essere distinti in acuti e cronici.
I retrovirus trasformanti acuti sono caratterizzati dalle seguenti proprietà:
a) sono capaci di trasformare cellule in coltura;
b) se iniettati in animali da esperimento inducono in tutti gli animali
riceventi il virus diverse neoplasie (leucemie o sarcomi) dopo un breve periodo
di latenza (1-2 settimane);
c) tranne il virus del Sarcoma di Rous, sono tutti difettivi per la
replicazione in quanto mancano dei geni poi e env. Pertanto per la loro
replicazione hanno bisogno della co-infezione da parte di un virus (detto "helper")
che è generalmente rappresentato da un virus trasformante cronico che fornisce
la trascrittasi inversa e le proteine del capside virale;
d) un numero considerevole di retrovirus conosciuti è stato ottenuto mediante
passaggi seriali di retro-virus cronici in animali da esperimenti. Per esempio
il virus del sarcoma di Harvey è stato originato mediante cicli di infezione del
virus leucemico di Moloney in ratti da esperimento. Allo stesso modo, il virus
del sarcoma di Kirsten deriva da passaggi seriali del virus leucemico di
Kirsten.
Le caratteristiche principali dei retrovirus trasformanti cronici, invece, sono:
a) non sono capaci di trasformare cellule in coltura;
b) quando inoculati in esperimento inducono neoplasie di tipo cronico solo dopo
un lungo periodo di latenza (3-18 mesi), e solo una percentuale degli animali
svilupperà la malattia;
c) sono autonomi per la replicazione.
Molti oncogeni sono stati isolati a partire da retro-virus acuti. Questi
virus, come detto, sono stati ottenuti da retrovirus trasformanti cronici in
seguito a passaggi seriali in animali da esperimento. Tale procedura prevedeva
l'infezione di una cavia con il retrovirus trasformante cronico: l'animale
veniva quindi sacrificato e dai suoi organi veniva purificato nuovamente il
retrovirus che era poi riinoculato in una nuova cavia.
Un altro approccio sperimentale che ha consentito l'identificazione di nuovi
oncogeni è stato quello basato sulla metodica della trasfezione. Grazie alla
trasfezione, infatti, è possibile trasferire il DNA estratto da cellule tumorali
umane in fibroblasti murini denominati NIH-3T3, una linea cellulare
particolarmente suscettibile alla trasformazione neoplastica.
Oltre ai normali geni cellulari, il DNA proveniente dalle cellule tumorali contiene anche gli oncogeni attivati responsabili del fenotipo trasformato; in seguito alla trasfezione, i fìbroblasti murini che ricevono gli oncogeni attivati formano delle strutture caratteristiche chiamate "foci" di trasformazione.
Ovviamente
la cellula che riceve l'oncogene viene trasfettata anche con diversi geni umani
normali e che non hanno alcun ruolo nella formazione dei foci. Per questo motivo
il DNA proveniente dai foci (contenente i geni murini delle NIH-3T3 ed alcuni
geni di origine umana, tra i quali l'oncogene responsabile della
trasformazione) viene isolato e nuovamente trasfettato in cellule NIH-3T3. Anche
dopo questa trasfezione, le cellule riceventi l'oncogene formano foci di
trasformazione. L'intera procedura viene ripetuta più volte affinché i foci di
NIH-3T3 trasformate contengano solo ed esclusivamente il gene responsabile della
trasformazione: ad ogni passaggio, infatti, il numero di geni umani privi di
attività trasformante che vengono co-trasfettati con l'oncogene si riduce, fino
ad arrivare a foci di trasformazione contenenti esclusivamente l'oncogene.
Alcuni oncogeni sono stati isolati attraverso lo studio delle alterazioni
cariotipiche caratteristiche di specifiche neoplasie. Questo è, ad
esempio, il caso della traslocazione t(9;22): tale riarrangiamento cromosomico
determina la formazione di un cromosoma derivativo (cromosoma Philadelphia)
frequentemente riscontrato nei pazienti affetti da leucemia mieloide cronica.
Analizzando la sequenza genomica corrispondente all'aberrazione cromosomica è
stato identificato l'oncogene di fusione BCR-ABL, responsabile di questa
patologia.
La conoscenza della sequenza di tutti i geni umani ha consentito di sviluppare
progetti focalizzati al sequenziamento dell'intero genoma di cellule tumorali.
Nuovi oncogeni sono già stati scoperti con questo approccio, come il gene BRAF
(coinvolto in melanomi ma anche in carcinomi papilliferi della tiroide) e nuovi
oncogeni coinvolti nella trasduzione del segnale nei carcinomi del colon.
I prodotti degli oncogeni possono essere classificati in sei gruppi principali:
fattori di trascrizione, proteine cromatiniche, fattori di crescita, recettori
per fattori di crescita, trasduttori del segnale e regolatori dell'apoptosi.
I fattori di trascrizione sono spesso membri di famiglie multigeniche che presentano domini strutturali comuni. Per espletare la loro funzione, molti fattori di trascrizione hanno bisogno di interagire con altre proteine. Ad esempio, il fattore di trascrizione Fos dimerizza con il fattore di trascrizione Jun per formare il complesso trascrizionale API, che incrementa l'espressione di numerosi geni che controllano la divisione cellulare e l'invasione. In alcuni tumori, l'attività del complesso API risulta de-regolata e la cellula trasformata acquisisce un vantaggio proliferativo aumentando la propria capacità di invadere il circolo sanguigno e dare metastasi. Spesso le traslocazioni cromosomiche attivano geni codificanti per fattori di trascrizione nelle neoplasie del sistema emopoietico, e ciò si verifica alle volte anche in alcuni tumori solidi, come per esempio nei carcinomi della prostata.
Nei sarcomi sono piuttosto frequenti traslocazion: cromosomiche che generano
geni di fusione che codificano per proteine chimeriche. Ad esempio, nel
sarcoma di Ewing il gene EWS è frequentemente coinvolti in riarrangiamenti
cromosomici che ne determinano la fusione con vari partner molecolari
caratterizzati da una alterata capacità trascrizionale. La proteina EWS è.
infatti, una molecola capace di legare il DNA che può stimolare in maniera
aberrante la trascrizione genica in seguito alla fusione con domini eterologhi
di legame al DNA. Nei carcinomi della prostata si verificano traslocazioni del
gene TMPR552 che si fonde con i geni ERGI ed ETV.
Tali geni sono membri della famiglia ETS, regolatori trascrizionali, che
possono attivare o reprimere i geni coinvolti nella proliferazione cellulare,
nel differenziamento e nell'apoptosi. La fusione di TMPR552 con i geni della
famiglia ETS genera proteine di fusione che aumentano la velocità di crescita
ed inibiscono l'apoptosi delle cellule della ghiandola prostatica, facilitando
quindi la loro trasformazione in cellule neoplastiche.
Fattori architettonici della cromatina
Modifiche del grado di compattezza della cromatina svolgono un ruolo critico nel controllo dell'espressione genica, nella replicazione, nella riparazione del DNA, e nella segregazione cromosomica. Due tipi di enzimi rimodellano la cromatina: enzimi ATP-dipendenti che modificano la posizione dei nucleosomi (le subunità degli istoni nella cromatina attorno alle quali il DNA è avvolto) ed enzimi che modificano le code N-terminali degli istoni. Le possibili combinazioni delle modifiche a carico degli istoni costituiscono un codice epigenetico che determina l'interazione tra nucleosomi e proteine associate alla cromatina. Queste interazioni, a loro volta, variano l'accessibilità della cromatina per i fattori trascrizionali.
La conoscenza della sequenza di tutti i geni umani ha consentito di sviluppare
progetti focalizzati al sequenziamento dell'intero genoma di cellule tumorali.
Nuovi oncogeni sono già stati scoperti con questo ap-proccio, come il gene BRAF
(coinvolto in melanomi ma anche in carcinomi papilliferi della tiroide) e nuovi
oncogeni coinvolti nella trasduzione del segnale nei carcinomi del colon.
I prodotti degli oncogeni possono essere classificati in sei gruppi principali:
fattori di trascrizione, proteine cromatiniche, fattori di crescita, recettori
per fattori di crescita, trasduttori del segnale e regolatori dell'apoptosi.
I fattori di trascrizione sono spesso membri di famiglie multigeniche che
presentano domini strutturali comuni. Per espletare la loro funzione, molti
fattori di trascrizione hanno bisogno di interagire con altre proteine. Ad
esempio, il fattore di trascrizione Fos dimerizza con il fattore di trascrizione
Jun per formare il complesso trascrizionale API, che incrementa l'espressione
di numerosi geni che controllano la divisione cellulare e l'invasione. In alcuni
tumori, l'attività del complesso API risulta deregolata e la cellula
trasformata acquisisce un vantaggio proliferativo aumentando la propria
capacità di invadere il circolo sanguigno e dare metastasi.
Spesso le traslocazioni cromosomiche attivano geni codificanti per fattori di
trascrizione nelle neoplasie del sistema emopoietico, e ciò si verifica alle
volte anche in alcuni tumori solidi, come per esempio nei carcinomi della
prostata.
Nei sarcomi sono piuttosto frequenti traslocazion: cromosomiche che generano
geni di fusione che codificano per proteine chimeriche. Ad esempio, nel
sarcoma di Ewing il gene EWS è frequentemente coinvolti in riarrangiamenti
cromosomici che ne determinano la fusione con vari partner molecolari
caratterizzati da una alterata capacità trascrizionale. La proteina EWS è.
infatti, una molecola capace di legare il DNA che può stimolare in maniera
aberrante la trascrizione genica in seguito alla fusione con domini eterologhi
di legame al DNA. Nei carcinomi della prostata si verificano traslocazioni del
gene TMPR552 che si fonde con i geni ERGI ed ETV.
Tali geni sono membri della famiglia ETS, regolatori trascrizionali, che
possono attivare o reprimere i geni coinvolti nella proliferazione cellulare,
nel differenziamento e nell'apoptosi. La fusione di TMPR552 con i geni della
famiglia ETS genera proteine di fusione che aumentano la velocità di crescita
ed inibiscono l'apoptosi delle cellule della ghiandola prostatica, facilitando
quindi la loro trasformazione in cellule neoplastiche.
Modifiche del grado di compattezza della cromatina svolgono un ruolo critico nel controllo dell'espressione genica, nella replicazione, nella riparazione del DNA, e nella segregazione cromosomica. Due tipi di enzimi rimodellano la cromatina: enzimi ATP-dipen-denti che modificano la posizione dei nucleosomi (le subunità degli istoni nella cromatina attorno alle quali il DNA è avvolto) ed enzimi che modificano le code N-terminali degli istoni.
Le possibili combinazioni delle modifiche a carico degli istoni costituiscono un codice epigenetico che determina l'interazione tra nucleosomi e proteine associate alla cromatina. Queste interazioni, a loro volta, variano l'accessibilità della cromatina per i fattori trascrizionali. Nella leucemia linfocitica acuta e nella leucemia mieloide acuta, il gene ALL1 (denominato anche MLL) può andare incontro a fusione con più di 50 geni.
La proteina ALL1 fa parte
di un complesso multiproteico molto ampio che comprende fattori di trascrizione
ed altre proteine coinvolte nella metilazione degli istoni e nelle modifiche a
carico dell'RNA. L'intero complesso rimodella, acetila, deacetila, e metila i
nucleosomi e gli istoni liberi. La fusione di ALL1 con uno dei 50 possibili geni
partners comporta la formazione di geni di fusione responsabili della
leucemia acuta linfoblastica e della leucemia mieloide acuta: le proteine
chimeriche che ne derivano, infatti, deregolano diversi geni coinvolti nella
trasformazione quali i fattori trascrizionali "homeo-box", il gene EPHA7 (che
codifica per un recettore con attività tirosino-chinasi) ed alcuni microRNA come
il miR-191.
Anche un gene codificante per un fattore di crescita può contribuire alla trasformazione maligna. Uno dei primi fattori di crescita con attività oncogenica identificati è stato il Platelet-derived growth factor (PDGF). Il PDGF è un dimero composto da due catene polipeptidiche, dette alfa e beta, ed è rilasciato dalle piastrine durante la coagulazione. Il PDGF può indurre la proliferazione di diversi tipi cellulari e stimolare i fìbroblasti a partecipare alla rimarginazione delle ferite. L'oncogene sis, derivante dal Simian sarcoma virus, è strutturalmente simile al gene che codifica per la catena beta del PDGF. L'iperespressione del PDGF induce la trasformazione in vitro dei fìbroblasti che esprimono i recettori per il PDGF mentre non mostra alcun effetto sui fìbroblasti che mancano di tali recettori. Il meccanismo autocrino che viene innescato determina un incremento dei livelli di PDGF e del suo recettore, causando una crescita cellulare incontrollata. Anticorpi diretti contro il PDGF-beta o il suo recettore, o le piccole molecole in grado di bloccarne l'attività riescono ad inibire la crescita dei fìbroblasti trasformati. Le glicoproteine secrete della famiglia di WNT inibiscono la fosforilazione e la degradazione della beta catenina, un fattore coinvolto nell'adesione cellula-cellula e nell'attivazione di numerose vie di trasduzione del segnale che modulano la motilità cellulare. La proteina APC controlla negativamente l'attività di beta catenina determinandone la degradazione: nella poliposi adenomatosa famigliare, mutazioni inattivanti di APC bloccano la degradazione di beta catenina inibendo la sua fosforilazione. Conseguentemente, la beta catenina libera nel citoplasma trasloca al nucleo, dove attiva l'espressione di geni coinvolti nella proliferazione ed invasione cellulare.
I recettori per fattori di crescita sono alterati in molte neoplasie. In molti tumori, ad esempio, si verifica la perdita del dominio di interazione con il ligando del recettore tirosino chinasi del fattore di crescita epidermico (Epidermal growth factor receptor, EGFR), che determina una attivazione recettoriale costitutiva anche in assenza di legame al ligando.
Tali mutazioni si riscontrano nei carcinomi del polmone, della mammella e nei tumori gastrointestinali di tipo stromale. La ricerca farmacologica ha sviluppato due classi di agenti clinicamente attivi in grado di contrastare l'attività dell'EGFR: un anticorpo monoclonale diretto contro il dominio extracellulare del recettore (cetuximab) ed alcuni inibitori che competono con l'attività tirosino chinasi del recettore (erlotinib e gefìtinib). II vascular endothelial growth factor (VEGF) regola la trascrizione genica in risposta allo stato di ipossia.
L'attività del VEGF è modulata da tre tirosino
chinasi di tipo recettoriale: VEGFR1 (FLT1), VEGFR2 (FLK1-KDR) e VEGFR3 (FLT4).
Il VEGF stimola l'angioge-nesi in diverse neoplasie, ed è per questo che sono
stati realizzati diversi inibitori di VEGF e/o dei suoi recettori: il
Bevacizumab, ad esempio, è un anticorpo monoclonale diretto contro VEGF, mentre
il SU5412, una piccola molecola, lega ed inibisce la subunità enzimatica dei
recettori VEGFR1 e VEGFR2 nonché le chinasi del recettore di PDGF e KIT.
Il legame di un recettore tirosino chinasi al proprio ligando causa una
riorganizzazione della struttura recettoriale e l'autofosforilazione delle
tirosine localizzate nella porzione intracellulare del recettore. L'autofosforilazione
facilita l'attività del recettore o ne promuove l'interazione con domini di
proteine citoplasmatiche (es. SH2-src homolgy domain 2) che sono effettori e
regolatori del "signaling" intracellulare. Nell'uomo ci sono circa 120 domini
SRC homology 2 in 100 differenti proteine che mediano la risposta a segnali
iniziati da tirosine fosforilate. Alcune di queste proteine sono dotate di una
propria attività enzimatica, mentre altre proteine mediano l'associazione dei
recettori attivati con altre proteine-bersaglio a valle.
Molti oncogeni codificano per membri di vie di trasduzione del segnale. Essi
possono essere divisi in due grosse classi: protein-chinasi di tipo non
recettoriale e proteine leganti guanosina trifosfata. Le protein-chinasi di tipo
non recettoriale sono di due tipi: tirosino chinasi (ABL, LCK, e SRC) e
serin-treonin-chinasi (AKT, RAF1, MOS, e PIMI). Le proteine coinvolte nella
trasduzione del segnale diventano oncogeniche se vanno incontro a mutazioni
attivanti. Un esempio importante è rappresentato da PI3K e da alcuni dei suoi
bersagli a valle, quali AKT e SGK, e che rivestono un ruolo critico nella
trasduzione del segnale di vari recettori tirosino chinasi, e possono essere
mutate in diversi tipi di cancro.
Il gene BCL2, che è coinvolto nell'insorgenza della maggior parte dei linfomi di
tipo follicolare ed alcuni linfomi diffusi a cellule B, codifica per una
proteina citoplasmatica che si localizza nei mitocondri ed incrementa la
sopravvivenza cellulare mediante l'inibizione dell'apopoptosi. BCL2 è importante
anche nelle leucemie linfocitiche croniche e nei carcinomi del polmone. Due
vie principali portano all'apoptosi: lo "stress pathway" ed il "death receptor
pathway".
Il primo pathway è innescato dalle proteine che contengono il dominio BCL2
homology 3 (BH3). Grazie a tale dominio, le proteine di questa famiglia
interagiscono con BCL2 e BCL-XL, e inibiscono la loro attività anti-apoptotica,
favorendo il rilascio del citocromo-c e l'attivazione delle caspasi, innescando
così la cascata apoptotica.
Al momento sono in corso di sviluppo farmaci (peptidi oppure piccole molecole
che possano mediare il legame di tali proteine) che possano mimare il dominio
BH3 e che siano capaci di legare BCL-XL oppure BCL2. Questo approccio ha
attratto considerevole attenzione dal momento che molti tumori iper-esprimono
BCL2 oppure le proteine correlate. Il "death-receptor pathway" è attivato dal
legame di TRAIL e del "tumor necrosis factor alfa" al loro corrispondente
recettore sulla superficie cellulare. L'attivazione dei "death receptors" attiva
le caspasi che causano poi la morte cellulare.
La famiglia ras comprende tre membri: c-ras-Ha, c-ras-Ki ed N-ras. I primi due sono stati isolati per la prima volta dal virus del sarcoma murino di Harvey e di Kirsten, rispettivamente, mentre N-ras è stato isolato mediante la tecnica della trasfezione a partire da cellule di neuroblastoma umano.
I geni della famiglia ras codificano per proteine ad alta omologia di 188-189 aminoacidi, con un peso molecolare di circa 21 KDa. Le proteine ras sono delle proteine G, e più specificamente delle piccole GTPasi, cioè proteine capaci di idrolizzare il GTP a GDP e gruppo fosfato. Tali GTPasi possono trovarsi in due possibili conformazioni, legante il GTP (ras-GTP), ed una inattiva complessata con il GDP (ras-GDP). Le piccole proteine GTPasiche aderiscono al late interno della membrana cellulare mediante residui di cisterna localizzati a livello della loro porzione carbossi-terminale che sono premiati e palmitoilati a livello post-traduzionale.
All'estremità carbossi-terminale delle proteine ras, infatti, è situato un dominio peptidico. detto CAAX box (costituito da una cisteina, due am-minoacidi alifatici ed un amminoacido qualsiasi), fondamentale per l'aggancio in membrana di tali proteine. In primo luogo, alla cisteina della CAAX box viene aggiunto un residuo idrofobico di geranil-geranil fosfato, che consente il legame della proteina alla membrana, a livello del reticolo endoplasmatico.
Quindi il tripeptide AAX viene staccato da una endoproteasi. ed il gruppo carbossilico della cisteina viene mediato da una metil-trasferasi. La proteina ras così processata viene definitivamente agganciata alla membrana. Nel caso di c-ras-Ha, si verifica anche una ulteriore modifica, la palmoitoilazione, a livello di una cisteina localizzata alcuni residui più a monte della CAAX box. Per quanto riguarda c-ras-Ki, esso interagisce elettrostaticamente con la membrana grazie ad un lungo dominio peptidico costituito da amminoacidi carichi positivamente. Le proteine della famiglia ras hanno un ruolo cruciale nella fisiologia cellulare in quanto fungono da mediatori tra i recettori per fattori di crescita e gli effettori mitogenici a valle coinvolti nella proliferazione o nel differenziamento cellulare.
A seguito della loro attivazione, infatti, numerosi recettori tirosino chinasi interagiscono con le proteine della famiglia ras e ne determinano il passaggio dalla loro conformazione inattiva, quando legano il guanosindifosfato (GDP), a quella attiva, in grado cioè di interagire con le molecole bersaglio, quando legano il guanosintrifosfato (GTP). L'attività GTPasica delle proteine ras è però strettamente regolata anche da altre proteine, delle quali alcune esercitano un'azione attivante ed altre, al contrario, un'azione inibente.
Nella sua forma inattiva, Ras lega il GDP. Stimoli extracellulari (ad
esempio attivazione di recettori tirosino-chinasi) e l'attività delle GEF (GTP
exchanging factors) stimolano il rilascio del GDP ed il legame al GTP. Ras
legato al GTP passa nella propria conformazione attiva, in grado cioè di
trasdurre segnali a valle. Mutazioni oncogeniche di Ras o delle proteine
necessarie per la sua inattivazione (che si verifica a seguito dell'idrolisi del
GTP a GDP) determinano una attivazione costitutiva dei segnali proliferativi
indotti da Ras (vedi figura)
Le principali proteine che regolano la funzione delle proteine ras sono:
a) GAP (GTPase Activating Protein): Favorisce l'idrolisi del GTP mantenendo le
proteine ras allo stato inattivo e facilitando il distacco dalla molecola
bersaglio. E inattivato in conseguenza della trasduzione del segnale innescata
da alcuni fattori di crescita (ad es. EGF, PDGF, FGF), e la sua inattivazione
determina un incremento della attività della proteina ras. Lo stesso effetto si
ha per deficiente sintesi della proteina GAP:
b) GIP (GTPase Inhibitory Protein): Si tratta di una famiglia di proteine aventi
in comune la proprietà di inibire l'attività GTPasica delle proteine ras;
c) GNRF (Guanine Nucleotide Releasing Factor): Incrementa l'attività delle
proteine ras facilitando il distacco del GDP e favorendo l'associazione col GTP:
d) GDF (GDP Dissociation Factor): Famiglia di proteine che mantengono le
proteine ras allo stato inattivo impedendo lo scambio GDP/GTP
Le mutazioni dei geni della famiglia ras nei tumori umani riguardano i codoni 12 e 13 nella regione di legame al fosfato (p-loop o phosphate binding loop) ed il residuo 61 nella regione ad attività catalitica.
Le mutazioni del residuo 12 rendono il dominio GTPasico di ras insensibile all'inattivazione da parte di GAP (che favorisce l'idrolisi del GTP a GDP), quindi, a causa della propria debole attività enzimatica, ras rimane nella sua forma attiva legato a GTP. Nel caso delle mutazioni del codone 61, invece, si verifica un'alterazione del sito catalitico che inibisce l'attività GTPasica della proteina, e quindi, anche in questo caso, la proteina Ras rimane costitutivamente nella sua forma attiva.
Numerosi studi hanno dimostrato che le
mutazioni dei geni ras rappresentano un evento iniziale nel processo di
carcinogenesi. I primi studi hanno utilizzato il modello della carcinogenesi
cutanea di Berenblum. In questo modello il trattamento della cute del topo con
un mutageno (il dimetibenzantracene, un composto appartenente alla famiglia
degli idrocarburi policiclici) seguito dal trattamento con un co-carcino-geno
(estere del forbolo) induce la formazione di tumori benigni della cute
denominati papillomi, che poi evolvono in carcinomi. E stato dimostrato che
mutazioni del gene ras erano presenti sia a livello di papillomi che di
carcinomi, indicando che le mutazioni di ras rappresentano un evento precoce del
processo di tumorigenesi. L'oncogene B-RAF
Il primo gene della famiglia raf è stato inizialmente isolato a partire da un
retrovirus murino contenente 1 ' oncogene v-raf. Da allora, nell'uomo sono
stati identificati tre geni codificanti per le proteine della famiglia RAF:
A-RAF, B-RAF e C-RAF (anche noto come Raf-1). Si tratta di proteine con attività
serin-treonin chinasi a localizzazione citoplasmatica.
Le proteine codificate dai geni RAF sono delle serin-treonin chinasi, e fanno
parte di una via di trasduzione del segnale altamente conservata a valle delle
proteine ras, la cui attivazione, come detto in precedenza, dipende da fattori
di crescita, ormoni e citochine. Le proteine RAF si legano a RAS solo quando ras
è legato al GTR ma non quando è legato al GDR
RAS stimola l'attivazione di RAF, che attiva a sua volta una seconda proteina
denominata MEK, che a sua volta attiva una terza proteina denominata ERK. ERK
modula l'espressione genica, i riarrangiamenti del cito-scheletro, ed il
metabolismo, coordinando le risposte a segnali extracellulari e regolando la
proliferazione cellulare, la senescenza e l'apoptosi.
B-RAF presenta la più alta frequenza di mutazioni nei melanomi (60-70%), nei
carcinomi papillari della tiroide (36-53%), carcinomi colorettali (5-22%),
carcinomi sierosi dell'ovaio (30), ed in bassa percentuale anche in una larga
varietà di altre neoplasie. Mutazioni di B-RAF si riscontrano in un'alta
percentuale di nevi (60-70%), lesioni benigne cutanee a carico del mela-nociti,
nelle quali si suppone che le cellule siano sene-scenti, e sono state
riscontrate anche nei polipi colon-rettali.
Si ritiene quindi che le mutazioni di B-RAF siano un evento precoce nel processo
di carcinogenesi, e che non siano sufficienti da sole a generare una neoplasia.
La proteina B-RAF è costituita da tre domini proteici principali:
a) CR-1, corrispondente al sito di legame per RAS;
b) CR-2, che presenta una serie di siti di fosforilazione:
c) CR-3, il domino ad attività enzimatica serin-treonin chinasi.
Più di 40 diverse mutazioni "missense" sono state individuate e riguardano 23
differenti codoni. La maggior parte delle mutazioni sono rare, e riguardano solo
lo 0,1-2% di tutti i casi. Tuttavia la mutazione che riguarda il codone 600 con
una trasversione da timi-dina ad adenosina e che determina la conversione di una
valina (V600) in un residuo di acido glutammico risulta di gran lunga la più
frequente ed è responsabile del 90% delle mutazioni in B-RAF nei melanomi e nei
carcinomi papillari della tiroide. V600 può essere mutata anche ad altri residui
aminoacidici, ma con una frequenza di gran lunga minore.
Il gene umano c-myc è l'omologo dell'oncogene v-myc, identificato per la prima volta in un retrovirus aviario, il virus MC-29 della mielocitomatosi, che induce leucemia mieloide, sarcomi, carcinomi epatici e renali. I prodotti dei vari geni myc sono evidenziabili nelle cellule di numerosi tessuti in seguito a stimolazione mitogenica, lasciando quindi ipotizzare che essi agiscano in vie di trasduzione di segnali comuni a molti tipi cellulari. Il gene c-myc è stato generalmente associato a promozione della proliferazione cellulare, desensibilizzazione a stimoli inibitori della crescita, blocco del differenziamento, immortalizzazione cellulare, trasformazione cellulare e sensibilizzazione a segnali stimolanti l'apoptosi. Le proteine MYC costituiscono una famiglia di fattori di trascrizione che include, oltre al prodotto del gene c-myc, anche le proteine N-myc ed L-myc, rispettivamente coinvolte nella genesi del neuroblastoma e del microcitoma.
I membri della famiglia Myc sono caratterizzati dal dominio bHLH/LZ (basic Helix-Loop-Helix/ Leucin Zipper): grazie al bHLH, Myc è in grado di legare il DNA, mentre il dominio LZ è necessario per la dimerizzazione di Myc con il suo partner Max, un altro fattore trascrizionale che presenta un dominio bHLH. Diversi signali mitogenici quali Wnt, Shh, ed EGF in seguito all'attivazione a cascata delle chinasi MAPK/ERK) possono indurre l'espressione di Myc. A sua volta, Myc regola positivamente l'espressione di un gran numero di geni (quali, ad esempio, alcune cicline) attraverso il legame a sequenze consenso (Enhancer box sequences-E boxes) ed il reclutamento delle istone acetiltransferasi (HATs). Allo stesso tempo, Myc può interagire con numerosi altri fattori trascrizionali e può regolare negativamente l'espressione di geni coinvolti nella proliferazione cellulare, come p21. La proteina c-myc, quindi, esercita effetti contrastanti sull'espressione genica, ed una sua iper-espressione può determinare una vasta gamma di effetti biologici, dalla stimolazione e progressione del ciclo cellulare alla induzione della morte cellulare programmata.
Questo strano comportamento è stato chiarito in seguito alla scoperta che, mediante "splicing alternativo", possono originare due distinte proteine Myc, definite c-Mycl e c-Myc2, che sembrano avere rispettivamente un effetto negativo o positivo sulla proliferazione cellulare. La complessità del fenomeno non si limita a questo: infatti, per essere attiva, la proteina myc ha bisogno di complessarsi con la proteina max, formando in questo modo eterodimeri Myc-Max che attivano la trascrizione genica, al contrario degli omodimeri Max-Max ad attività inibitoria. Myc risulta iperespresso in numerose neoplasie maligne, quali leucemie, carcinomi del colon, dell'ovaio, del polmone e così via. Le alterazioni del gene myc hanno un ruolo determinante nello sviluppo del linfoma di Burkitt, una neoplasia indotta dal virus di Epstein-Barr e che si presenta in forma endemica in alcune regioni dell'Africa, dove colpisce preferenzialmente i bambini, ed in forma sporadica in altre regioni. In questa neoplasia il proto-oncogene c-myc va incontro a tre possibili traslocazioni, la t(8;14) (q24;q32), la più frequente (90% dei casi) e considerata generalmente come traslocazione tipica, e le traslocazioni t(8;2) (q24;ql2) e t(8;22) (q24;qll), comunemente descritte come varianti. In seguito a tali riarrangiamenti, il protooncogene c-myc, localizzato a livello del braccio lungo del cromosoma 8, viene a collocarsi rispettivamente in prossimità di sequenze promotrici (promoters) o facilitanti (enhancers) dei geni che nel cromosoma 14 codificano per le catene pesanti delle immunoglobuline, nel cromosoma 2 per le catene leggere di tipo k e nel cromosoma 22 per quelle leggere di tipo A.
Con questa traslocazione, che può
essere anche reciproca, c-myc viene a trovarsi sotto il controllo trascrizionale
di elementi genomici che nei linfociti B sono perennemente attivati, con la
conseguenza che la sua espressione risulta significativamente incrementata. In
alcune regioni dell'Africa centrale, la malaria ed il virus di Epstein-Barr
inducono una stimolazione immunitaria con iperfunzione delle regioni di
regolazione dei geni che codificano per le immunoglobuline nei linfociti B.