Con il termine «prioni» (coniato da Prusiner per indicare agenti «patogeni» di natura esclusivamente proteica ma provvisti di proprietà infettanti) si definiscono gli ancora elusivi ed enigmatici agenti responsabili di una serie di encefalopatie «degenerative» dell'uomo e di alcuni animali, la cui trasmissibilità (o infettività ?), sia in condizioni sperimentali sia in condizioni «naturali», è provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Le diverse encefalopatie da prioni sono caratterizzate, dal punto di vista istopatologico, dalla presenza di lesioni «degenerative» in una serie di distretti encefalici (diversamente coinvolti nei differenti fenotipi clinici di patologia) che si manifestano con la costante comparsa di vacuoli che originano nei dendriti neuronali e nella zona perinucleare dei neuroni e conferiscono al tessuto nervoso un aspetto spongioso (encefalopatie spongiformi). A queste lesioni si accompagnano l'atrofia e la perdita di cellule neuronali, un'intensa proliferazione delle cellule gliali e la frequente deposizione di fibrille di natura glicoproteica, in placche simili a quelle presenti nella degenerazione amiloide.
I «prioni» sono isoforme patologiche di proteine normali, presenti soprattutto nei neuroni, che hanno la loro origine primigenia nella presenza di mutazioni nel gene codificatore e che si accumulano nelle cellule neuronali, in particolare, danneggiandole irreversibilmente. Quello che rende assolutamente peculiare una siffatta situazione patologica è il fatto che l'inoculazione di sospensioni di tessuti contenenti «prioni» (o, come vedremo più avanti, anche la mera ingestione, ad esempio a scopo alimentare, di tessuti «infetti») è in grado di indurre la comparsa della patologia in soggetti «normali», i quali divengono, a loro volta, una potenziale sorgente di «infezione» per altri soggetti «normali», e così via.
In altre parole, pur essendo il risultato di una «mutazione» in un gene normalmente presente nell'organismo, le proteine prioniche patologiche sono dotate della capacità, se introdotte in un organismo sano, di moltiplicarvisi (anche se, come vedremo, con un meccanismo replicativo assolutamente sui generis) e di indurvi la comparsa della patologia a prescindere, questa volta, dalla presenza di mutazioni nel gene codificatore.
Le ricerche di Gajdusek, infatti, hanno dimostrato che l'inoculazione intracerebrale nei primati, di sospensioni di tessuto nervoso centrale proveniente da pazienti deceduti per kuru, provoca, dopo un lungo periodo di incubazione (1-1,5 anni), la comparsa di manifestazioni cliniche ed anatomo-patologiche molto simili a quelle presenti nella patologia umana. Ma non solo. Le ricerche di Gajdusek, infatti, hanno anche consentito di ricavare convincenti indicazioni epidemiologiche sulla possibilità che l'andamento endemo-epidemico del «kuru» nella popolazione Papua fosse provocata e mantenuta dalla trasmissione «orizzontale» della patologia, a causa di una serie di pratiche di «cannibalismo rituale», suggerendo così anche la possibilità di una «trasmissione interumana» e per «via alimentare» della patologia. Partendo da queste rilevazioni, è stata successivamente dimostrata, mediante inoculazione intracerebrale nelle scimmie, di tessuti in particolare di tessuto nervoso centrale (cervello, midollo spinale) ma anche di tessuti di provenienenza oculare, epatica, renale, splenica e linfonodale provenienti da pazienti deceduti per encefalopatie spongiformi, la trasmissibilità sperimentale delle «encefalopatie spongiformi» umane presenti in tutto il mondo e rappresentate dalla malattia di Creutzefeldt-Jacob (CJ) e dalla malattia di Gerstmann-Straussler-Scheinker (GSS), note da tempo, nonché dalla Insonnia Familiare Fatale (FFI = Fatal Familial Insomnia) descritta (dai ricercatori della Clinica Neurologica dell'Università di Bologna) in epoca relativamente recente (seconda metà degli anni 1980). La CJ è una rara (1 caso/anno/106 individui) forma di «demenza pre-senile» descritta nel 1920 e clinicamente caratterizzata da variabili segni di declino delle capacità motorie e cognitive e da una rapida (dal momento della comparsa dei primi sintomi) evoluzione letale della patologia. Nella grande maggioranza dei casi la malattia si presenta in casi isolati (CJ-sporadica o idiopatica) mentre occasionalmente (circa il 10% dei casi) presenta una chiara impronta «familiare» (CJ-familiare, descritta nel 1924) a trasmissione ereditaria, autosomica dominante.
La GSS (costantemente ad incidenza «familiare») può essere considerata una varietà della CJ, con prevalenti sintomi cerebellari (atassia) ed una molto più intensa presenza nel tessuto nervoso centrale di «placche» amiloidotiche formate dana'deposizione di fibrille di natura glicoproteica, mentre la FFI (probabilmente già descritta In passato come «pure thalamic dementia») - della quale nel 1999 sono stati descritti anche alcuni casi di patologia «sporadica» (s-FI o sporadic Fatal Insomnia) non riconducibile, quindi, ad una trasmissione ereditaria, è caratterizzata, oltre che da una chiara impronta genetica «familiare», da una consistente presenza di lesioni talamiche. Intorno agli anni 1970, inoltre, è stata dimostrata anche la trasmissibilità interumana della CJ (per inoculazione accidentale - in conseguenza, purtroppo, di interventi sanitari di vario tipo - di materiale umano proveniente da soggetti «infetti») attraverso l'inaspettata e drammatica rilevazione di una serie (poco meno di 300, fino alla metà degli anni 1980) di casi di CJ-iatrogena, in pazienti trattati con ormone della crescita o gonadotropine di origine estrattiva (dalle ipofisi di cadaveri di soggetti che, evidentemente, erano affetti da CJ, ancorché clinicamente ancora non evidente), in soggetti sottoposti ad allotrapianti di cornea o di «dura madre» (i cui «donatori» erano evidentemente nelle stesse condizioni) o in pazienti trattati neurochirurgicamente con elettrodi stereotassici (utilizzati in precedenza su pazienti con ogni probabilità affetti da CJ in fase preclinica e non sterilizzati adeguatamente). D'altro canto, anche per quanto riguarda la patologia animale, a parte la scrapie di cui abbiamo già detto - e con la eccezione di alcuni casi spontanei di encefalopatie spongiformi (la cosiddetta «cachessia cronica» o CWD: chronic wasting disease) evidenziati in animali (alce, cervo) presenti allo stato brado in alcuni parchi degli USA (Colorado, Wyoming) e di origine incerta -le altre forme di encefalopatie spongiformi animali sino ad ora descritte - sia che si tratti di casi sporadici o più o meno consistenti focolai epidemici di encefalopatie spongiformi come quelli descritti, rispettivamente, in animali (ungulati) esotici in cattività negli Zoo, in felini domestici (FSE: feline spongiform encephalopathy) 0 nei visoni in allevamento (TME o Transmissible mink encephalopathy), sia che si tratti della recente, drammatica, epidemia di encefalopatia spongiforme che, a partire dal 1986, ha colpito, con centinaia di migliaia di casi, i bovini (BSE: bovine spongiform encephalopathy) in allevamento intensivo in Gran Bretagna (e con più modesti focolai in Irlanda, Portogallo, Svizzera, Francia ed altri Paesi europei) - sembrano tutte imputabili ad «infezioni esogene» contratte per «via alimentare» in seguito alla introduzione, nella catena alimentare animale, di materiali provenienti da animali portatori di patologie di questo tipo. Per quanto riguarda la fiSE, che, come abbiamo detto, ha avuto inizio in Gran Bretagna nel 1986, si presume - ma probabilmente non si riuscirà mai a provarlo in modo incontrovertibile - che il «prione» della BSE abbia avuto la sua origine nel «prione» della «scrapie» (enzootica nelle greggi inglesi) che avrebbe fatto il «salto di specie» quando, all'inizio degli anni 1980, il processo utilizzato per la trasformazione degli scarti della macellazione degli ovini in vari sottoprodotti, tra i quali anche, e soprattutto, «farine proteiche» utilizzate come integratori dell'alimentazione dei bovini in allevamento intensivo, è stato modificato con l'eliminazione della estrazione dei grassi animali (sevo) mediante solventi a base di petrolio utilizzati a temperature elevate (procedimento che era evidentemente in grado di «inattivare» il prione della scrapie) causando l'immissione nella alimentazione bovina di materiali ancora «infettanti». La comparsa, negli allevamenti inglesi, dei primi bovini affetti da BSE e l'avventata immissione degli scarti di macellazione, o delle intere carcasse, di questi animali, nel processo di produzione delle farine proteiche che hanno continuato ad essere usate nell'alimentazione animale, avrebbe enormemente amplificato il processo, portando alla drammatica epizoozia di encefalite spongiforme bovina negli allevamenti inglesi dai quali, attraverso il commercio degli animali, delle carni e delle «farine proteiche», essa si sarebbe estesa anche ad altri Paesi europei. L'importanza della BSE - che, nonostante una serie di misure di controllo, che si sono andate inasprendo con gli anni (abbattimento ed incinerazione dei bovini infetti o sospetti tali, proibizione dell'impiego zootecnico di «farine animali», divieto di produzione di «farine animali» e distruzione delle scorte esistenti) non è ancora completamente eradicata - non consiste solo nei danni al patrimonio zootecnico, ma risiede soprattutto nel paventato rischio di una trasmissibilità animale-uomo della patologia attraverso l'impiego alimentare di carni bovine. A partire dal 1995-96, infatti, è stata individuata (a tutt'oggi sono stati descritti più di un centinaio di casi, di cui la grandissima maggioranza in Gran Bretagna, alcuni casi in Francia ed almeno uno in Irlanda) una nuova forma di encefalopatia spongiforme umana che è stata denominata - forse non del tutto propriamente, date le peculiarità cliniche ed anatomo-patologiche che la distinguono significativamente dalla Creutzefeldt-Jacob familiare o sporadica - nuova variante (della malattia) di Creutzefeldt-Jacob o CJ-nv (Creutzefeidt-Jacob new-variant). La malattia, il cui inizio è accompagnato da sintomi psichiatrici, che presenta un decorso relativamente protratto (fino a 38 mesi dall'inizio della sintomatologia alla morte del paziente) e che dal punto di vista istopatologico è caratterizzata dalla presenza di placche amiloidotiche «floride» (formate da un denso «core» di depositi amiloidotici circondato da numerosi vacuoli), è stata osservata insorgere «spontaneamente» (in assenza cioè di possibili cause di origine iatrogena, come ad esempio la somministrazione, nell'infanzia, di ormone della crescita di origine estrattiva umana) in soggetti di relativamente giovane età (età media 27 anni), rispetto all'età di insorgenza della CJ sporadica (età media 65 anni). Come diremo ancora più avanti, la CJ-nv - sia per le evidenze epidemiologiche [la patologia è stata sino ad ora riscontrata solo nelle popolazioni residenti nelle zone prevalentemente interessate dalla epidemia di encefalite spongiforme dei bovini (BSE) e con un'incidenza direttamente proporzionale alla diffusione della patologia animale], sia per alcune caratteristiche del «prione» coinvolto - viene con ragionevole presunzione considerata la conseguenza di una «infezione esogena» contratta per «via alimentare», a seguito della assunzione di cibi confezionati con materiali provenienti da bovini affetti da BSE.
I numerosi esperimenti iniziati già sul finire della prima metà del secolo
scorso, condotti nel tentativo di «isolare» il o i «virus» ) responsabili delle
encefalopatie spongiformi, e le ricerche sulla eziologia della «scrapie», pur
assolutamente deludenti sotto questo profilo, hanno tuttavia dimostrato in
maniera abbastanza sorprendente che il potere infettante sperimentale del
nevrasse di animali deceduti per encefalopatia spongiforme era non solo
resistente a tutta una serie di trattamenti in grado di inattivare i virus
convenzionali (anche campioni di tessuto nervoso conservati da tempo in
formalina si sono mostrati in grado di trasmettere la patologia), ma anche
assolutamente resistente a qualsiasi trattamento in grado di inattivare gli
acidi nucleici; inoltre, si dimostrava sensibile, almeno in parte, ad alcuni
trattamenti in grado di denaturare le proteine (urea, fenoli, etc), per cui era
giocoforza concludere che l'elusivo «agente infettante», probabilmente
costituito da una «proteina» particolarmente resistente a diversi trattamenti
«denaturanti», doveva essere privo di un genoma (o almeno di un genoma
«convenzionale») e che la sua replicazione non poteva che seguire una strada
assolutamente peculiare.
A partire dall'inizio degli anni 1980, grazie alla messa a punto di più agevoli
modelli sperimentali realizzati con la dimostrazione della possibilità di
trasmettere l'affezione nel topino o in altri piccoli roditori come il criceto
(dove la patologia si manifesta nel giro di alcune settimane o di alcuni mesi e
non di anni, come nei primati) ed alla disponibilità di più sofisticate tecniche
di analisi molecolare, si è ottenuta la dimostrazione che la trasmissibilità
sperimentale della patologia coincide con una proteina parzialmente glicosilata,
formata da 253 aminoacidi e del peso molecolare di 33-35 kDa, che è stata
denominata PrP (proteina prionica).
La determinazione della sequenza aminoacidica della PrP associata allo «scrapie»
o PrPSc, ottenuta nel 1984, ha consentito di scoprire che le cellule dei
mammiferi contengono un gene (Prnp) che codifica una proteina molto simile,
che e stata quindi denominata proteina prionica cellulare o PrPc. La proteina «prionica»
normale (PrPc) dell'uomo, codificata dal gene Prnp localizzato sul braccio corto
del cromosoma 20, è costituita da 253 aminoacidi, ha un peso molecolare di 33-35 kDa, ed è glicosilata (glicoproteina) a livello di due asparagine in posizione
181 e 197. Durante la traduzione, la PrPc viene addizionata di un gruppo di
glicosil-fosfatidil-inositolo con il quale essa si ancora alla membrana delle
cellule, alla cui superficie viene normalmente posizionata. La PrPc è presente
soprattutto sulla membrana cellulare dei neuroni, ma livelli minori di
espressione sono stati dimostrati anche a livello dei polmoni, del cuore, dei
reni, del pancreas, dei testicoli, dei leucociti e delle piastrine. Il suo
ruolo fisiologico è ancora da definire, anche se esiste qualche evidenza di un
suo possibile intervento nella funzione sinaptica e nel legame del rame (copper-binding
protein) e, inoltre, sulla base di alcune osservazioni che ne avrebbero
dimostrato un'attività enzimatica superossido-dismutasica, è stata anche
avanzata l'ipotesi che la PrP potrebbe svolgere un ruolo diretto nella
protezione della cellula dallo stress ossidativo.
Le due isoforme, normale e patologica, di PrP non presentano sostanziali
differenze biochimiche a parte una massa minore (27-30 kDa) della PrP
patologica,
per la perdita di alcune sequenze aminoacidiche agli estremi C- ed N-terminali.
Esse differiscono però nella conformazione molecolare e cioè, mentre la PrPc
presenta una notevole presenza di siti molecolari nella conformazione cosiddetta
ad «a-helix», la PrPSc (tutte le proteine prioniche patologiche e non solo
quella della scrapie, sono denominate PrPSc o PrPTse da Transmissible spongiform
encephalopathy o PrP-res da protease-resistant. Anche la PrPc è talora indicata
come PrP-sen da protease-sensitive) presenta una prevalenza di siti molecolari
che si presentano "srotolati" (unfolded) nella conformazione cosiddetta a «B-sfteet» e queste differenze conformazionali sono accompagnate dalla
presenza, nella PrPSc, di una notevole resistenza alla digestione con enzimi
proteolitici. Le proteine prioniche patologiche, formate da frammenti
proteasi-resistenti di circa 145 aminoacidi, nelle cellule (nervose, in
particolare] dei vertebrati con encefalo-patie spongiformi, si ritrovano
aggregate in formazioni fibrillari depositate in ammassi (placche] che sovente
sono contenuti all'interno di vacuoli citoplasmatici.
Nei tessuti degli animali infettati sperimentalmente, solo una parte della PrP è
presente nella isoforma PrPSc, ma è solo quest'ultima ad essere infettante.
Nella trasmissione sperimentale di «prioni» da una specie ad un'altra, la prima
inoculazione provoca la comparsa di sintomi morbosi solo dopo un periodo di
«incubazione» molto lungo, o può anche non portare alla comparsa di sintomi
morbosi. Nel caso di una trasmissione effettuata con successo, i passaggi
successivi del materiale (tessuto nervoso centrale) «infetto» in altri animali
della specie ricevente si accompagnano ad una progressiva riduzione del periodo
di incubazione che finisce con lo stabilizzarsi intorno ad un preciso periodo di
tempo. Se, a questo punto, si prova a ritrasmettere l'infezione alla specie di
origine, si osserva ancora il ripetersi dello stesso andamento del periodo di
incubazione (molto lungo all'inizio e, via via, più breve in seguito) nella
serie di inoculazioni successive.
Questo risultato, che indica l'esistenza di una sorta di «barriera di specie»
(apparentemente legata alla presenza di differenze nella sequenza aminoacidica
della PrP di specie diverse) alla trasmissione dei prioni insieme al fatto che
la sequenza della PrPSc è sempre quella della PrPc codificata dalle cellule
dell'animai ospite e non quella della Prp patologica utilizzata con inoculo
iniziale, indica chiaramente che la trasmissibilità dei prioni è un fenomeno che
richiede la cooperazione della PrP normale codificata dall'organismo ospite con
la PrP patologica esogena.
Una definitiva conferma di questa conclusione deriva dagli esperimenti condotti
in animali «knockout Prnp0/0 (animali con un'ampia o totale delezione (knockout),
indotta artificialmente, del gene codificante la PrP] cioè incapaci di produrre
PrPc. Questi animali, infatti, non solo non presentano la comparsa «spontanea»
di un'encefalopatia spongiforme - dimostrando così che la causa della patologia
non è l'assenza o l'inibizione della PrP normale. Inoltre risultano assolutamente resistenti alla inoculazione di «prioni» in grado di indurre la comparsa
della patologia negli stessi ani mali con una normale capacità di produrre PrPc,
il che dimostra che non è la Prp patologica esogena, a «moltiplicarsi»
nell'organismo ospite e che la comparsa a PrP50 e della relativa patologia
richiedono la presenzi della PrP normale.
Gli esperimenti di trasmissione di PrPSc in anima li transgenici (animali nel
cui genoma sono artificialmente inserite diverse copie del gene Prnp di una
specie animale diversa e che sono, quindi, in grado di produrre la PrPc della
specie animale da cui proviene i gene «esogeno») hanno inoltre dimostrato che la
«barriera di specie» può essere superata se in un animali sono presenti
geni «eterologhi»
in grado di codificare la PrPc della stessa specie dell'animale da cui provieni
l'inoculo, indicando così che le probabilità di «trasmissione» dei «prioni»
sono tanto più elevate quanto più elevata è la «affinità» tra la PrP
«patologica» inoculate e la PrP «normale» prodotta dall'organismo ricevente.
Dall'insieme di queste osservazioni, emerge chiara mente che i «prioni» che si
ritrovano negli animali da esperimento inoculati con materiali «infettanti» sono
in realtà, il risultato di una modificazione conformazionale (post-traduttiva)
delle molecole di PrPc, prodotte normalmente dall'organismo ricevente, per
azione d «prioni» esogeni presenti nel materiale inoculato e che tale
modificazione è tanto più efficiente e rapida
(barriera di specie) quanto maggiore è l'affinità' ) tra le due PrP,
rispettivamente normale (endogena) e patologica (esogena).
Sulla base di questo insieme di dati sperimentali, è stato elaborato il modello
di «replicazione» dei prioni delle encefalopatie spongiformi umane o animali
«trasmissibili» - sia che la trasmissione sia il risultato di una «spontanea»
infezione «orizzontale» (il che, più frequentemente, si verifica per via
alimentare), sia che essa avvenga sperimentalmente per inoculazione di materiali
«infetti» in animali da laboratorio.
Secondo questo modello (che è un modello che presenta ancora alcuni aspetti
ipotetici) la PrPc viene ciclicamente sintetizzata e degradata durante lo
svol-gimento del normale metabolismo cellulare (nel quale, come abbiamo detto,
essa svolge funzioni ancora da definire chiaramente). Fluttuazioni meramente
stocastiche nella modificazione post-traduttiva della struttura di PrPc
potrebbero portare alla formazione di rare molecole monomeriche, parzialmente
«srotolate» (PrP*) che rappresenterebbero una fase intermedia instabile
(peraltro, ancora, fisicamente non dimostrata) di possibile transizione verso la
forma molecolare con ampie porzioni a fisheet caratteristica della PrPSc. Le
molecole di PrP*, di norma, ritornerebbero alla conformazione molecolare
«normale» o sarebbero degradate nel catabolismo cellulare.
Nelle encefalopatie spongiformi «trasmissibili» (naturalmente o
sperimentalmente), i «prioni esogeni» avrebbero la capacità - in presenza di una
sufficiente «affinità» con la PrP prodotta nell'organismo, ovverosia in assenza
di un'efficace «barriera di specie» - di favorire la transizione della PrP*
verso la forma PrPSc definitiva, con il progressivo accumulo citoplasmatico di
aggregati oligomerici «fibrillari», proteasi-resistenti di PrPSc ed il
danneggiamento irreversibile della cellula' ).
Schema del meccanismo per la formazione degli accumuli intracellulari di proteina prionica patologica nella trasmissione orizzontale |
In altre parole ogni «prione» (PrPSc) esogeno, legandosi ad una molecola PrP*
dell'ospite, ne «catalizzerebbe» la definiva transizione verso la conformazione PrPSc, con la produzione finale di due molecole di PrPSc. Queste sarebbero in
grado, a loro volta, di «catalizzare» la definitiva transizione a PrPSc di
altre due molecole di PrP*, e così via, determinando nei tessuti dell'organismo
«infetto» il conseguente incremento «esponenziale» di nuovi «prioni» che si
originano dalla PrPc dell'organismo ospite grazie alle molecole nella
conformazione instabile PrP*.
Dopo un periodo di tempo (periodo di incubazione) sufficiente all'accumulo delle
quantità di PrPSc necessarie ad indurre danni cellulari irreversibili, nell'organismo
ospite compaiono i sintomi morbosi (soprattutto a carico del nevrasse) ed i suoi
tessuti (in particolare il tessuto nervoso) contengono sufficienti quantità di
PrPSc, derivata dalla PrPc prodotta nell'organismo stesso, per poter riprodurre
la patologia se trasmessi ad un altro organismo, soprattutto se della stessa
specie.
Nelle encefalopatie spongiformi umane a carattere familiare, invece, in cui è
chiaramente accertata la trasmissione «ereditaria» autosomica e dominante (circa
il 10% dei casi di CJ, tutti i casi di GSS e FFI) il processo patogenetico è
costantemente legato alla presenza di specifiche mutazioni nel gene Prnp e si
svolgerebbe nel modo seguente: nei soggetti portatori di una
mutazione (in genere si tratta di mutazioni puntiformi o, meno frequentemente,
di mutazioni da inserzione/delezione] nel gene che codifica la PrP, la PrPc che si
produce (APrPc) presenta modificazioni della sequenza aminoacidica che
diminuiscono le probabilità che la PrPc assuma un «normale» assetto
conformazionale, aumentando, invece, le probabilità di transizione della PrPc
nella forma PrP* (APrP*) e della sua definitiva conversione nella conformazione
«prionica patologica» (APrPSc). è possibile che, anche in questi casi, le
proteine «prioniche» (APrPSc) neoformate (endogene] intervengano, a loro volta,
nel «catalizzare» la definitiva conversione di altre molecole di APrP* in APrPSc,
con l'innesco di un perverso circuito che, sia pure lentamente (normalmente si
tratta di patologie che compaiono in età «pre-senile») conduce all'accumulo di
proteine «prioniche», soprattutto a livello del tessuto nervoso centrale, ed
alla comparsa di danni cellulari che, tuttavia, una volta raggiunta la soglia
critica per la loro estrinsecazione in una sintomatologia clinica conclamata,
sono generalmente seguiti dalla morte del soggetto in breve volgere di tempo.
Nelle forme «sporadiche o idiopatiche» di encefalopatie spongiformi umane
(circa il 90% dei casi di CJ, più i pochi casi di s-FI descritti recentemente]
non sono invece riscontrabili mutazioni del gene Prnp (come è, invece, il caso,
ripetiamo, nelle forme «familiari» che, essendo la conseguenza di un danno
genetico trasmissibile ereditariamente, presentano un gene Prnp «mutato» già
nelle cellule germinali] e tutti i tentativi di tracciarne l'origine in una
possibile esposizione a particolari fattori ambientali (origine «esogena») hanno
dato risultati scoraggianti, per cui è giocoforza ammettere che la patologia sia
il risultato di mutazioni «somatiche» (che occorrono solo nelle cellule
neuronali coinvolte dalla patologia) o di stocastici (casuali) incrementi nel
ritmo di conversione «spontanea» di PrP* in PrPSc, con l'innesco di un circuito
che ripete, nelle sue tappe essenziali, quanto abbiamo già descritto in
precedenza.
Va però sottolineato come la recente (2004) scoperta nel bovino di un nuovo
prione che somiglia, sia per le intrinseche caratteristiche sia per il tipo di
patologia indotta naturalmente nell'animale (encefalopatia spongiforme
amiloidotica bovina), a quello della forma «sporadica» di CJ, potrebbe fornire
una traccia per giungere alla tanto ricercata eziologia «esogena» della
patologia umana.
Per quanto riguarda i casi di CJ nuova variante, descritti di recente
(soprattutto in Gran Bretagna, come abbiamo detto) essi sono al momento
considerati ascrivibili alla «infezione» da prioni esogeni, introdotti
nell'organismo per ingestione di carni bovine provenienti da animali affetti da
«encefalopatia spongiforme» (a sua volta innescata dall'alimentazione degli
animali in allevamento con «farine» di origine animale). L'eziologia da
«infezione» esogena della CJ-nv umana trova solide motivazioni non solo sotto il
profilo epidemiologico, per la chiara correlazione spazio-temporale con la
presenza della epidemia di BSE negli animali di allevamenti intensivi a scopo
alimentare, ma anche sotto il profilo eziologico. Infatti, nonostante dati
recenti (1999)
sulla mancata trasmissibilità dell'infezione da prioni della BSE a topi
transgenici per la PrPc umana sembrassero deporre per l'esistenza di una
«barriera di specie» bovino-uomo non facilmente superabile, osservazioni ancora
più recenti - che hanno dimostrato non solo che il prione della BSE è facilmente
trasmissibile (come era prevedibile) a topi transgenici per la PrPc bovina, ma
che anche il prione della CJ-nv è facilmente trasmissibile agli stessi topi nei
quali provoca una patologia identica, sotto ogni profilo, a quella indotta dal
prione di origine bovina, risultando inoltre praticamente indistinguibile da
quest'ultimo, dopo un unico passaggio nel topo transgenico (mentre presenta
significative differenze nella composizione aminoacidica rispetto alla proteina
prionica patologica presente nei casi di CJ-sporadica] - indicano con
ragionevole evidenza una significativa affinità del prione della CJ-nv con
quello della BSE ed hanno drammaticamente proposto la possibilità che, nel corso
degli ultimi quindici-venti anni, un gran numero di esseri umani possa essere
stato «esposto», per via alimentare, al prione della BSE, con la conseguenza
che, al momento, almeno la quota di soggetti con possibili fattori genetici
predisponenti (ad esempio, soggetti con omozigosi Met/Met a livello del codone
129 di Prnp - si veda in seguito) si trovi nella «fase di incubazione» della
patologia e sia quindi prevedibilmente destinato a far consistentemente
aumentare i casi di CJ-nv clinicamente conclamata nei prossimi anni.
Un possibile fattore di aumentata predisposizione genetica dell'uomo alla
comparsa delle encefalopatie spongiformi è individuabile nel «polimorfismo»
presente a livello del «codone» in posizione 129 nel gene Prnp, dove può essere
normalmente presente sia il codone per l'aminoacido valina (Val), sia il codone
per l'aminoacido metionina (Met).
Nella popolazione caucasica la distribuzione dei relativi genotipi è del 37% per
Met/Met, del 51% per Met/Val e del 12% per Val/Val (ovverosia circa il 50% dei
genotipi è omozigote per Met o per Val, e circa il 50% è eterozigote). In
contrasto con la distribuzione nella popolazione generale, la frequenza di
omozigosi (Val/Val o Met/Met) nei casi di CJ-sporadica è di circa il 90%,
configurandosi così l'omozigosi a livello del codone 129 di Prnp come un
probabile «fattore di rischio» per l'insorgenza della patologia. Non si può
comunque sottacere che in alcune popolazioni, come quella giapponese, la elevata
frequenza di omozigosi Met/Met nei casi di CJ sporadica è mascherata dall'elevata
frequenza del fenomeno nella popolazione normale. Poiché l'incidenza di CJ-sporadica in Giappone non è più elevata che altrove, è necessario ammettere
che
l'omozigosi a livello del codone 129, non sia di per sé un elemento predittivo
della malattia, ma rappresenti piuttosto solo un importante fattore
predisponente, in grado di agire solo in concomitanza con l'esposizione ad altri
«fattori» (?) essenziali per la comparsa della patologia. Oltre a rappresentare
un possibile fattore di rischio per la comparsa della patologia, il genotipo a
livello del codone 129 di Prnp sembra anche in grado di influenzare il fenotipo
clinico della CJ-sporadica. Una omozigosi Met/Met, infatti, è infatti
generalmente associata con un forma di demenza rapidamente progressiva, mentre
il genotipo Val/Val è più frequentemente associato ad un decorso più prolungato
e con prevalenti sintomi iniziali di atassia.
Un'elevata frequenza di omozigosi (Met/Met o Val/ Val) a livello del codone 129
di Prnp è stata dimostrata anche nei casi di CJ di origine iatrogena, associati
alla somministrazione di ormone della crescita di origine estrattiva umana, e -
dato di assoluto rilievo - in tutti i casi di CJ nuova-variante è stata
riscontrata una costante presenza di omozigosi Met/Met a livello del codone 129
di Prnp, il che dimostra che il polimorfismo a livello del codone 129 di Prnp
può svolgere il ruolo di fattore gene-tico predisponente anche nei confronti
della patologia da prioni esogeni, risultando evidentemente in grado di
influenzare l'interazione tra proteina prionica patologica (di origine esogena)
e proteina prionica normale.
Anche nelle encefalopatie spongiformi a carattere «familiare» (a trasmissione
ereditaria), l'omozigosi a livello del codone 129 sembra in grado di influenzare
il quadro anatomo-clinico della patologia. Essa, infatti, è significativamente
associata ad una patologia con un esordio ad un'età relativamente minore e con
un decorso più aggressivo. Come se non bastasse, il polimorfismo a livello 129
sembra anche in grado di condizionare il fenotipo clinico della patologia, pur
in presenza della stessa mutazione nel gene che codifica la proteina prionica.
Ad esempio, la mutazione (dominante nella CJ e nella FFI) «D178N») [mutazione
a livello del codone 178 di Prnp che comporta una transizione da aspartato (D) ad asparagina (N) nella PrP] in presenza di Val in posizione 129 nella
PrP provoca una malattia che assume il fenotipo della CJ-familiare
(caratterizzata da una PrPSc con una migrazione elettroforetica compatibile con
una massa di 21 kDa) mentre in presenza di Met induce una patologia con il
fenotipo della FFI (con una Pr-PSc con una migrazione elettroforetica
compatibile con una massa di 19 kDa). Queste osservazioni suggeriscono che la
patologia fondamentale (encefalopatia spongiforme) è dovuta alla mutazione
dominante D178N, ma che le diverse forme cliniche con le quali la patologia di
base si manifesta fenotipicamente sono influenzate dai diversi sottotipi
conformazionali della PrPSc, a loro volta determinati dall'aminoacido (Met o Val)
presente a livello del codone 129, evidentemente in grado di condizionare la
conformazione definitiva del la proteina prionica patologica.
Il sospetto di una malattia da «prioni» è legittimo in ogni paziente che
presenti un progressivo (subacuto) declino di funzioni cognitive e/o motorie.
Nella patologie da «prioni» non sono presenti fenomeni infiammatori e non si ha
produzione di anticorpi o, comunque, l'innesco di una evidente reazione
immunitaria umorale o cellulo-mediata (la proteina prionica «patologica» non
differisce da quella «normale» in modo sufficientemente significativo per essere
riconosciuta come not self.
La diagnosi è generalmente clinica. Dal punto di vista della diagnosi
«eziologica» di laboratorio, il test diagnostico più attendibile consiste nella
ricerca della PrPSc umana, mediante antisieri immuni specifici, preparati
artificialmente in animali da laboratorio'165, in prepa-razioni di Western-blot
(si veda pag. 56) allestite da un campione bioptico di materiale cerebrale,
precedente-mente esposto all'azione di enzimi proteolitici per eli-minare la
PrPc (si tratta comunque di un test di impiego limitato a casi particolari dai
quali sia possibile ottenere materiali adeguati, mediante biopsia cerebrale).
La diagnosi post-mortem può avvantaggiarsi di re-azioni di Western-blot in
prelievi autoptici di tessuto cerebrale coinvolto da lesioni spongiformi (sempre
previo trattamento proteolitico per eliminare la PrPc) o, eventualmente, della
ricerca della PrPSc (proteasi-resistente) umana mediante reazioni
immunoistochi-miche nelle placche amiloidotiche.
Nelle patologie con una chiara impronta familiare l'analisi del gene Prnp
(amplificato mediante PCR ed analizzato mediante sequenziamento della
composizione nucleotidica) per la ricerca di mutazioni associate con la
patologia può essere perseguita nel DNA dei leucociti circolanti, sia in
prelievi effettuati ante-mortem, ai fini della diagnosi «eziologica» di
patologia. Una ragionevole garanzia della totale eliminazione del potere «infettante»
di «prioni» presenti in materiali contaminati si ottiene con un trattamento con NaOH IN per 60 minuti, seguito dal trattamento in autoclave a 121°C per 30
minuti. Anche se, sperimentalmente, è possibile ottenere anticorpi monoclonali
diretti contro epitopi «conformazionali» caratteristicamente esclusivi della
isoforma patologica.
La recente dimostrazione che è possibile «infettare» con proteine prioniche
patologiche alcune sottopopolazioni di linee cellulari di origine nervosa
centrale in coltura in vitro, con la produzione di elevati livelli, facilmente
dimostrabili, di PrPSc, oltre che consentire un più agevole modello di indagine
rispetto a quello offerto dall'infezione di animali da esperimento, potrebbe
aprire la strada a tecniche diagnostiche di maggiore sensibilità e manegevolezza
di quelle attualmente disponibili.
Al momento non esistono terapie valide e non si ha notizia di guarigioni
«spontanee» della patologia.
Non esistono, ovviamente, efficaci strumenti di profilassi ed il rischio di
trasmissione iatrogena (trasfusioni, trapianto di organi e tessuti) continuerà
ad essere presente, per quanto estremamente modesto, sino a quando non saranno
sviluppati test diagnostici efficaci e relativamente poco costosi per essere
introdotti negli screening di routine dei donatori. Del resto, anche il rischio,
pure se anch'esso relativamente modesto, della trasmissione della CJ- nv per via
alimentare non è eliminato dai controlli effettuati sui bovini introdotti nella
catena alimentare umana, i cui risultati sono essenziali per il monitoraggio
dell'infezione animale, ma che, anche in caso di negatività, non garantiscono
l'assoluta salubrità, sotto questo profilo, delle carni ammesse al consumo
alimentare. Il recente sviluppo, grazie alle tecniche di ingegneria genetica, di
bovini che mancano del gene che codifica la proteina prionica normale e che,
quindi, dovrebbero essere esenti dalla relativa patologia, potrebbe
rappresentare lo strumento in grado di garantire, anche se in una prospettiva
temporale non molto prossima, la definitiva eliminazione delle patologie da
prioni di origine alimentare.